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Fausto Dalla Valentina: i social possono essere uno strumento di pace

Scritto da: LAURA TUSSI

Fausto Dalla Valentina si definisce un “piccolo sociologo”, che è anche il nome che ha dato ai suoi canali social. Attraverso essi, senza inseguire la logica del click baiting, propone contenuti che cercano di suscitare consapevolezza e che vanno dalle domande esistenziali più profonde all’informazione sui temi chiave del pacifismo, del disarmo e della nonviolenza.

Fausto Dalla Valentina si potrebbe definire un innovativo influencer sui generis. Il suo spazio divulgativo si chiama Piccolo Sociologo. Ma Fausto svolge il suo ruolo in modo molto positivo, creativo e costruttivo. Con il suo impegno lancia messaggi di pace, nonviolenza e – perché no? – amore. Lui si definisce un “vlogger”, poiché pubblica video in cui trasmette contenuti di pensieri e concetti molto profondi con un linguaggio estremamente essenziale, ma molto pertinente, semplice e comprensibile da tutti. Fra i temi caldi del momento trattati sui canali social di Fausto Dalla Valentina – per cui è stato invitato più volte in televisione per gestire conversazioni con un contraddittorio ovviamente – c’è la guerra in Ucraina.

Fausto ti riconosci nella presentazione che ho fatto di te?

Sì e ti ringrazio per le belle parole. Quello dell’influencer può essere un ruolo molto positivo, ma io non sento di rientrare in questa categoria. È vero che comunico sui social e utilizzo gli hashtag, ma solitamente un influencer tende a direzionare il suo agire soprattutto verso ciò che i suoi followers prediligono. Io invece mi baso su ciò che mi appassiona, anche se è contro i miei interessi nell’ottica “like”. Poco dopo il 24 febbraio 2022 ho lanciato l’iniziativa con l’hashtag #ParliamoDiPace che ancora circola tanto e ormai conta centinaia di post, svariati video, articoli nel mio blog ed interviste varie, compresa quella con te e Fabrizio Cracolici.

fausto dalla valentina
Qual è il riscontro di questo tuo modo di comunicare presso il pubblico?

Come per la pandemia, la guerra in Ucraina è stato uno spartiacque. Per questa mia presa di posizione molti hanno smesso di seguirmi e addirittura svariati conoscenti mi hanno tolto l’amicizia su Facebook. Per non parlare delle centinaia di insulti su YouTube, quasi tutti incentrati sull’accusa infondata di “se parli di pace sei un putiniano”.

Riguardo le apparizioni televisive, nella puntata di Diritto e Rovescio del 5 maggio 2022, pensavo mi avessero invitato tra varie voci pacifiste, non immaginavo di essere invece l’unico quella sera in studio a parlare di pace e più che un contraddittorio si è trattato di un “tutti contro uno”. In ogni caso per me vale sempre la pena dare voce alla pace. Vlogger è più quello che faccio, non quello che sono. Mi definirei più un ricercatore esistenziale.

Gli argomenti che tratti maggiormente partono dalla ricerca esistenziale?

La domanda esistenziale “chi siamo” è centrale per me, perché ci pone in discussione. Apparentemente astratta e filosofica, può sembrare che non porti da nessuna parte, ma continuare a porsela ci fa scoprire ad esempio chi non siamo, chi crediamo di essere, i nostri condizionamenti e pregiudizi e, se anche non trovassimo una risposta definitiva, ci riporta al presente in modo pratico, per divenire chi vogliamo essere.

Se poi andiamo ancora più in profondità, chiedersi chi siamo significa osservarsi, generare un testimone che scruta la coscienza. Se ci manteniamo costanti nell’auto-osservazione cominciamo a identificarci sempre più con l’osservatore piuttosto che con l’osservato. E qui si fa interessante, per non dire sconvolgente, rispetto all’idea diffusa di un io come entità unica e indivisibile.

https://youtube.com/watch?v=EjCjz-r_Wag%3Ffeature%3Doembed
Parli anche di identità personale e collettiva, dei nostri valori etici e condizionamenti, dello sviluppo di un pensiero critico: questo coinvolge anche l’approccio con la natura etica ed ecologica e l’ambito politico che affronti con atteggiamento satirico.

Esatto, più che sulla sociologia la mia impostazione pare basata sulla tuttologia. L’identità ci viene soprattutto trasmessa dalla cultura che troviamo nelle condizioni di nascita, ci identifichiamo come individui in gruppi di appartenenza spesso contrapposti e questa è una delle basi di cui si nutre la guerra. Abbiamo spesso un’identità limitata, che difficilmente va oltre al proprio ruolo lavorativo/sociale, figuriamoci oltre la propria nazione. Un’identità molto limitata perché – come narra Pirandello nel fu Mattia Pascal – se smetto di interpretare un determinato ruolo identitario, chi sono io a quel punto?

Ci crediamo uomini moderni e civilizzati, ma molti scontri armati avvengono ancora per contese di territori, così come accadeva ai tempi dei primitivi. Se provassimo ad andare oltre i nostri piccoli confini esterni, soprattutto ideologici, il nostro patriottismo non sarebbe più solo delimitato dalle lingue o da stili di vita differenti ma potremmo sentirci tutti parte di una patria planetaria.
Come fu per il muro di Berlino, oggi a partire dalla NATO, dobbiamo abbattere il muro ideologico che divide il mondo in fazioni contrapposte.

Il sociologo Galtung ad esempio aveva individuato tre forme di violenza: diretta, strutturale e culturale o simbolica. Su queste basi, come puoi descrivere il tuo concetto di violenza?

Le varie forme di violenza intrappolano la pace in una gabbia buia. È la bramosa economia di guerra che trae profitto dalla morte e specula sulla sofferenza. Poi c’è la totale incapacità politica dei governi e delle istituzioni internazionali di agire con strumenti diplomatici di mediazione. Ma non è finita, la lista sarebbe ancora lunghissima. Suonerà strano ma la pace è prigioniera anche di chi, pur essendo contro la guerra, rimane silenzioso e inerte, pensando che sia competenza e facoltà esclusiva dei governanti porre fine ai conflitti. Siamo stati persuasi che la guerra alcune volte può essere considerata giusta: l’inganno per giustificare l’uso della violenza.

Dobbiamo abbattere il muro ideologico che divide il mondo in fazioni contrapposte

Non distinguiamo più tra azioni sagge o stolte ma viviamo nell’automatismo polarizzato “noi siamo buoni, i cattivi vadano all’inferno”. Così, per uccidere “loro” siamo disposti a fare uccidere pure i “nostri”. Come diceva Gandhi, «la violenza è un suicidio». Ma esiste una via d’uscita: il dialogo è la chiave per liberare la pace. Ci sono nuovi modelli eroici che nulla hanno a che fare con i sacrifici sanguinosi; al contrario, mostrano il coraggio di rinunciare alla rivalsa del proprio ego, mettendo al primo posto il bene comune, disinnescano l’escalation della violenza, perseverando nella costruzione di ponti d’incontro.

Rifacendomi al Mahatma, per sconfiggere il senso di impotenza e di rassegnazione che attanaglia buona parte della popolazione serve una prolungata marcia condivisa di disobbedienza civile nonviolenta, ma per ottenere risultati deve essere utilizzata in modo ricorrente come strumento democratico di massa. Siamo in un momento cruciale per l’umanità: se al nostro progresso tecnologico non corrisponde un equivalente sviluppo evolutivo, sarà come dare a un bambino di 4 anni una Ferrari al posto di una macchina giocattolo. Dobbiamo crescere la nostra statura etico morale e ripudiare quella antropocentrica, tornando con la massima urgenza a essere parte armonica della natura del mondo dal quale ci siamo alienati.

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Il Centro di Educazione alla Pace di Rovereto e la sperimentazione di forme creative di coinvolgimento

Scritto da: LAURA TUSSI

Sin dagli anni ottanta il Centro di Educazione alla Pace di Rovereto ha portato avanti una fondamentale attività per la diffusione di una cultura di pace e nonviolenza attraverso iniziative innovative che hanno fatto scuola in tutta Italia. Il tutto nel segno di una figura storica del mondo dell’attivismo trentino, italiano e internazionale di cui è appena ricorso il 28esimo anniversario della scomparsa: Alex Langer.

TrentoTrentino Alto Adige – Comiso, Baghdad, Sarajevo… Erano gli anni ottanta, e poi novanta e a livello nazionale e globale si assisteva quasi inermi, ma con una grande volontà di azione e cambiamento, a condizioni di violenza e ferocia conclamate che continuavano nel solco della storia di sempre, ma con un’accelerazione dopo gli eventi del 1989. Eppure sembrava che un’alternativa fosse possibile: la capacità di mobilitazione, sollecitata da organismi collettivi e da reti spontanee e in espansione strutturata. Era la prova di una opinione pubblica indisponibile ad accettare gli orrori delle nuove guerre e la logica dell’iniquità.

Senza illusioni di un successo immediato, vista la disparità delle forze, ma con la consapevolezza che la nuova società aveva possibilità di sbocciare: quella della partecipazione in chiave pacifista e quella che a un certo punto si sarebbe riassunta nello slogan “fuori la guerra dalla storia”. Fra le tante, è interessante ripercorrere un’esperienza in particolare –il laboratorio Trentino per la nonviolenza e di educazione alla pace e in particolare il Centro di Educazione alla Pace di Rovereto –, proprio nei giorni in cui ricorre il 28esimo anniversario della morte di uno dei maggiori protagonisti della scena pacifista trentina.

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Questo laboratorio infatti e il Trentino tutto sono profondamente legati alla propizia e quanto mai carismatica personalità di Alex Langer. Il Centro di Educazione alla Pace di Rovereto è stato un luogo felice e chi, per volontà o per caso, ha potuto circolare tra questo incrocio di progetti, ne ha misurato l’impegno e le potenzialità non sempre pienamente realizzate. Nel piccolo ambito della città trentina, gli attivisti si sono sentiti grandi, aperti, collegati con il mondo e le sue miserie, ma anche le sue forze nobili, impegnati sui temi che entro lo sguardo critico sui giochi planetari, erano e sono le direttrici per il pensiero e l’azione di una nuova civiltà.

La pace, i diritti, l’ambiente, la crescita di panorami nuovi di cittadinanza. Su questo gli attivisti che hanno strutturato i lavori del Centro di Educazione alla Pace si sono impegnati operando su una molteplicità di livelli: dalla manifestazione all’approfondimento tematico, dai progetti con le scuole e i primi incontri e percorsi civicamente interculturali. Il comitato delle associazioni per la pace e i diritti umani era molto attivo e forte, già allora, di una lunghissima storia.

L’opposizione ai missili Cruise e la carica ideale terzomondista sono state alle radici di un soggetto rimasto attivo fino ai tempi attuali. Sono ancora presenti le realtà fondatrici, se ne sono aggregate altre nate in seguito, sono stati promossi gruppi di lavoro e nuove esperienze di associazionismo strutturato e di incontro informale. Si è affermato più che una ricambio, una crescita generazionale. La dialettica interna, a volte anche non poco sofferta, è stata garantita dai diversi mondi di riferimento politici e religiosi – laico, cattolico, valdese, islamico e altri – che vi hanno partecipato.

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Il centro di educazione permanente alla pace, gestito dal comitato, dal 1992 è il luogo fisico per la progettualità, la formazione, la testimonianza, la documentazione. Intorno a queste istanze è stata pensata e perseguita la rete per l’educazione alla pace a livello nazionale. Qui si sono incontrati una moltitudine di protagonisti dal basso: testimoni dalla ex Jugoslavia, nonne di Plaza de Majo, monaci tibetani, attivisti di tanti paesi africani e così via.

Qui si sono avvicinate ottiche spirituali diverse e culture religiose e si sono svolti percorsi importanti sul potenziamento delle iniziative e soprattutto sull’emancipazione della donna: si è cercato di analizzare insomma quel processo dal quartiere all’ONU, al palazzo di vetro a cui qualcuno degli attivisti è arrivato davvero.

Il Centro di Educazione alla Pace è stato un luogo di sperimentazione di forme creative di coinvolgimento, una per tutte “danzare la pace”. E si sono avviate le prime proposte di formazione rivolta agli insegnanti per far entrare nella scuola metodi e contenuti coerenti con un diverso futuro. Sono partiti i primissimi, volontaristici corsi di italiano per stranieri, che erano contemporaneamente occasioni di conoscenza reciproca. Si sono sviluppate diverse iniziative sui beni comuni, a partire dalla campagna sull’acqua e le proposte per uno sviluppo sostenibile.

Uno degli obiettivi del Centro di Educazione alla Pace è il “fare memoria” di storie di questi decenni, che è una necessità comunque

A Rovereto fa centro il comitato migranti, una larga rete per l’accoglienza in relazione, tramite incontri e corsi con i giovani profughi ospitati nel territorio. Negli anni novanta del secolo scorso, la città trentina ha visto svilupparsi progetti di ricerca e informazione a respiro internazionale con i quali il comitato ha cercato di interagire, come l’Università dell’istruzione dei popoli per la pace e l’osservatorio sui Balcani e Caucaso. Il decennio di attività dell’Università dell’istruzione dei popoli per la pace ha portato in città i più impegnati studiosi su pace, nonviolenza, diplomazia popolare, globalizzazione. E con questi per le sessioni annuali dei corsi, sono arrivati giovani da tutto il mondo, portatori di vissuti ed esperienze comunitarie e professionali davvero esemplari.

Ragionare con rigore scientifico sui meccanismi del conflitto e della possibilità di conciliazione, della violenza strutturale e quindi di principi di economia mondiale; far incontrare in un percorso comune studenti israeliani e palestinesi; portare nelle scuole l’attivista nigeriana, lo studente nepalese, il giornalista colombiano. Questo e altro ancora si è cercato di portare nel tessuto cittadino fino all’esperienza internazionale. I corsi locali hanno poi investito ambiti molteplici, come l’educazione interculturale, l’amministrazione pubblica, l’economia, la solidarietà internazionale.

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E anche su questo si è sempre tentato di portare riflessione ed esperienza a destinatari di più ampio respiro oltre l’azione d’aula.
Ma per tutta questa storia rimandiamo a spazi e strumenti appositi. È difficile misurare nelle sue ricadute l’attivismo di tante vite, di una comunità variegata. Sono sempre stati consapevoli della difficoltà di far percepire alla città la presenza continuativa, il lavoro veramente quotidiano, aldilà delle manifestazioni di maggiore visibilità.

Allargare la partecipazione, agganciare nuovi interlocutori, far circolare idee e proposte in ambienti più vasti sono stati mantenuti come obiettivi paralleli a un’iniziativa come il “fare memoria” di storie di questi decenni, che è una necessità comunque. Tanto più lo è oggi, quando è difficile contare sulle grandi risposte pubbliche che hanno accompagnato gli anni novanta. Con la coscienza di quanto si è costruito e la ricognizione su quello che vive, rinforziamo il nostro sguardo verso il futuro. Per superare l’attuale tragica congiuntura di estrema deriva bellicista in Russia e Ucraina oltre il conflitto, oltre l’estremo limite della potenziale terza guerra mondiale con il suo tragico epilogo nell’apocalisse nucleare.