Della scuola Istituto Comprensivo Margherita Hack di Nova Milanese-Monza e Brianza fanno parte insegnanti e educatori che si impegnano per infondere nella popolazione studentesca e nella popolazione in generale norme di condotta che portino alla preservazione dell’ambiente, alla promozione di un’educazione ambientale e alla formazione della cittadinanza. Il progetto connesso con Agenda ONU 2030 per l’educazione alla cittadinanza attiva e globale è visto come un contributo per la realizzazione della piena cittadinanza dei ragazzi.
Puntare sulla formazione dei giovani, renderli coscienti rispetto a un’educazione ambientale e umana e in rapporto all’urgenza della preservazione del nostro pianeta sono obiettivi sia nostri sia di organizzazioni mondiali e degli organizzatori di Agenda ONU 2030. In questo ambito, la scuola ha portato avanti diverse iniziative: ha sviluppato varie attività e progetti tra i quali mi sembra interessante evidenziare il progetto “L’orto a scuola”, costituito dalla realizzazione di un parco ludico e pedagogico e di un orto biologico e didattico con serra inclusa.
Siamo una scuola che scommette e continuerà a scommettere sulla formazione e sulla responsabilizzazione e presa di coscienza dei nostri giovani affinché si adoperino per preservare oggi ciò che è a rischio per domani. Consapevoli del fatto che, spesso, le parole sono spazzate via dal vento, abbiamo deciso di mettere la teoria in pratica e coinvolgere i giovani in maniera attiva e partecipata in tutte le fasi del progetto. Abbiamo perciò realizzato azioni che vanno dirette allo studio degli spazi, in seguito alla fase di osservazione, gli studenti discutono sulle possibili soluzioni, all’elaborazione del progetto, ogni ragazza e ragazzo ha elaborato un suo progetto e tutti insieme sono serviti come base per il progetto finale.
Dalla pulizia degli spazi, gli alunni hanno partecipato a questa sistemazione, alla recinzione dei terreni per renderli più accoglienti e meno soggetti a pratiche che potrebbero danneggiarli.
I lavori pratici, che andavano dalla zappatura della terra alla semina di ortaggi, alberi da frutto, sementi, ad irrigazione, raccolta di prodotti e loro successiva distribuzione e vendita alla collocazione dei tavoli nella parte del parco ludico e pedagogico dove gli alunni hanno svolto alcune attività curricolari ed extracurriculari. I lavori di riqualificazione e manutenzione, le campagne di sensibilizzazione all’interno e al di fuori della scuola. Dallo studio delle specie vegetali da piantare all’elaborazione di locandine a tema.
Dalla collocazione e sistemazione di appezzamenti all’identificazione delle specie vegetali.
Dalla sistemazione di piante i cui frutti saranno consumati nella mensa scolastica alla realizzazione di una piantagione di alberi da frutto e alla creazione sul posto di calendari legati a foresta e ambiente. Ed è da evidenziare che le attività relative al progetto “L’orto a scuola” si stanno realizzando in maniera interdisciplinare e continuativa.
Iniziate in passato, queste attività, continuano con entusiasmo, dinamismo e grande ricettività da parte della comunità scolastica e sicuramente proseguiranno con la stessa vivacità. Il progetto ormai radicato nella scuola ha già dato e sta continuando a dare vari frutti, ma deve proseguire affinché questi si moltiplichino. Soprattutto occorrerebbe un cambiamento di mentalità, perché la vita sul pianeta terra possa continuare in maniera giusta ed equilibrata. È stato gratificante, e continua ad esserlo, verificare come poco a poco di fronte al cambiamento gli studenti abbiano fatto propri dei valori e degli atteggiamenti finalizzati al conseguimento di un mondo migliore.
L’amore e l’interesse per la natura sono stati la forza motrice del progetto “Educazione e ambiente”, un viaggio nel quale i miei colleghi e io ci siamo confrontati all’unisono. È servito a stimolare numerose discussioni pedagogiche e ha incoraggiato l’applicazione di diverse teorie educative.
Ringraziamo Franco Astengo per questo ricordo del processo di Norimberga. E’ stato un avvenimento importante, anche se non ha potuto, voluto, mettere a frutto tutte le implicazioni che potevano riguardarlo. E che riguarderebbero anche oggi tutti noi, in pieno dispiegamento di armi di distruzione assoluta, da parte di diversi Stati, mentre allora, ai tempi del processo, un solo stato le deteneva.
Dire ai nazisti che l’obbedienza allo Stato non poteva essere il gas per l’ uccisione di ebrei, comunisti, zingari, omosessuali, persone con disabilità fisica o psichica, previa estrazione di eventuali parti di oro dalle bocche di questi, prima del forno crematorio, oppure fare esperimenti sui corpi dei prigionieri secondo le voglie di un qualche dottore. No. Non era Umanità. Giusto.
Però quegli stessi Stati vincitori della guerra, si stavano spartendo i tecnici migliori degli sconfitti, per un loro prossimo dopoguerra. Uno di loro stava assoldando addirittura il fratello di Eichmann con altri, per combattere politicamente i sovietici (documenti Cia desecretati anni fa). Sempre questo Stato, gli USA, ha deciso di lanciare le bombe atomiche su Hiroshima, prima, e Nagasaki, dopo, al momento che i sovietici hanno deciso di entrare in Giappone, solo per “avvisare” chi poteva comandare allora. Non per sollecitare il Giappone a dichiarare una resa ormai acclarata nei fatti.
Ecco perché il processo di Norimberga non ha sortito la Pace, come si voleva o ci si aspettava, dopo tutti i dolori e ferite della guerra e i suoi morti.
Gli Stati vincitori non hanno compiuto nessun gesto pubblico, riparatore, della violenza che anche loro hanno impiegato, come ricorda Calamandrei, per dire basta guerre, distruzioni, viviamo in altri modi. Ed eccoci all’oggi con gli Stati sempre formati dagli uomini e donne del tempo, che si armano a dismisura, utilizzando la loro violenza, come sempre, ma che oggi si rivelerebbe totalmente autodistruttiva per tutti. Si aspetta un altro processo che si dovrebbe svolgere ancora a Norimberga, per capire che la responsabilità è personale come abbiamo detto, giustamente, ai nazisti anni addietro?
75 anni fa finiva la guerra…per preparare la successiva
Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale si ponevano le basi per quella che potrebbe avvenire ai giorni nostri, e speriamo mai possa accadere, dipende anche da noi cittadini di tutti gli stati, almeno quelli nucleari, compreso il nostro. La bomba nucleare su Nagasaki, lanciata dopo Hiroshima, al momento dell’ingresso delle truppe sovietiche in Giappone, in contemporanea con la resa dello stesso tramite il suo imperatore, non ne era un segno futuro? E la disputa successiva ad accaparrarsi i migliori tecnici nazisti da parte dei vincitori non ne era un altro segno, compreso l’assunzione di personale politico nazista, fratello di Eichmann incluso, perché parlasse male del sovietismo (notizie CIA desecretate alcuni anni fa)? E che dire del Processo di Norimberga in cui veniva sancita la responsabilità personale nei confronti dello Stato che ti ordinava di far morire persone che venivano ritenute “nemiche” dello stesso, come comunisti, ebrei, omosessuali, zingari, portatori di handicap, disabili, disagiati psichici? Non era troppo facile, per alcuni versi, questa colpevolizzazione nei riguardi dei nazisti? Non erano nazisti? Perché non farlo diventare un principio generale valido da subito, per tutti, affinchè non si debba più piangere per guerre e distruzioni? Franco Fornari ha scritto un libro sulla psicanalisi della guerra atomica, ricordando che il pilota dell’aereo che ha sganciato la “Bomba” è stato messo in manicomio perché si è sentito colpevole di aver ucciso migliaia di persone, solo perché il tempo atmosferico era favorevole.
Certo ci sarebbe voluto un personaggio alla Francesco, capace di coniugare temi umani validi per chiunque, con temi anche religiosi, come nella Laudato Si. Oppure ricordare come in tante Lettere di condannati a morte della Resistenza venisse scritto che loro hanno imbracciato le armi solo per sconfiggere il nazifascismo e basta.
Oppure realizzare che anche la nostra violenza ha distrutto e colpito persone o cose certamente tedesche, ma non necessariamente naziste, e che quindi questa violenza non doveva essere più adoperata.
Ragionamenti comunque superati dall’atteggiamento degli Stati e dei loro rappresentanti, considerato che per loro il futuro era ancora il dominio sugli altri visto l’interesse per i tecnici nazisti, le armi da loro realizzate, e le scelte politiche effettuate. E siamo all’ oggi con delle V2 di allora che possono portare bombe più potenti ancora di Hiroshima e Nagasaki. Ci converrebbe svegliarci. “Dopo” aspettiamo un altro Norimberga?
Ingrandiamo l'”orto” della Pace
Pace significa chiudersi nel proprio ambito e ritenersi autosoddisfatti del proprio pacifismo, chiudendo lo sguardo sulla realtà circostante ? Non voglio insegnare niente, ma Francesco d’Assisi si comportava così? Diremmo proprio di no visto che andava di persona a perorare la Pace a chi faceva le guerre, e questo, ovviamente non vuol dire che qualcuno di Assisi debba comportarsi in quel modo. Ma avere atteggiamenti più consoni questo sì.
Attendo con curiosità le risposte di altri, credendo di sapere che anche loro partono principalmente da considerazioni di vita personale e non “politica” nel senso nobile del termine. “Fermiamo la guerra”, i comboniani, come la pensano? Il gruppo Pace di Viterbo, idem? E gli altri gruppi per la pace?
Sto pensando se si riuscisse a mettere insieme la maggior parte dei gruppi pacifisti per rilanciare il Tpan da noi, in Italia, ammettendo che Rete Disarmo, della Pace, vogliano fare anche i capo scuola in presenza di altri gruppi.
L’unità dei pacifisti per il TPAN- Trattato Proibizione Armi Nucleari
Sono giorni in cui si parla di Pace in tutto il mondo con iniziative di vario tipo, stante anche la situazione Covid. Chi ci legge sono anche rappresentanti di altri gruppi pacifisti con altre storie e responsabili anche di testate giornalistiche on-line. Vi chiediamo la possibilità di programmare una serie di incontri o manifestazioni a cui possano partecipare altri gruppi, il cui unico scopo sarebbe quello, politico, di parlare del trattato TPAN e non delle diversità, le possibili antipatie personali, tra di noi che vorremmo la Pace. Sappiamo tutti che la ratifica di almeno 50 Paesi non vuol dire pace, nell’immediato. Ma il fatto che internazionalmente esista una legge che proibisce il possesso, la trasmissione, l’uso minaccioso di queste armi, mai sancito fino ad oggi, è un punto di partenza.
Viene in mente che viviamo una sola vita, che più o meno tutti abbiamo persone cui vogliamo bene e questo dovrebbe significare che queste debbano continuare a vivere; che per tanti versi lo splendido Pianeta che abitiamo, si muove nello Spazio alla velocità di 29 km/sec. Non comportiamoci come quelle formiche, che trasportate da qualche nave, hanno il pensiero diverso dal nostro di impadronirsi del territorio delle formiche locali! Ma adesso abbiamo le armi nucleari, non è storia nostra.
Le Università per la Pace
Professore Pianta, ci rivolgiamo a lei.
Chi scrive è un obiettore di coscienza degli anni 66/68 che ha rifiutato diverse volte di indossare la divisa militare, non tanto solo per quello, ma per rappresentare la tesi della responsabilità personale nei confronti della guerra, come indicato ai nazisti, i perdenti nel Processo di Norimberga. E tesi non validata, per ciascuno di noi, in quei tempi, che erano l’alba di un’era che non vi è mai stata, nella nostra storia umana. Era “Nucleare” che può significare perfino la scomparsa della Vita del nostro genere o comunque una distruttività, mai così intensa, da farci tornare all’età della pietra per chi, in qualche modo si è salvato. Mi sono rifatto a questa tesi, presentata in un libro scritto da uno psicanalista Franco Fornari, con vari interessi umanistici, “Psicanalisi della guerra atomica” del 1964.
Parla di un ritorno al soggetto per la salvezza di tutti, perché, semplicemente, come cittadini di uno stato qualsiasi deleghiamo la nostra violenza a questo. La nostra violenza, alienata, viene trasformata in armi e in guerre. Ma oggi siamo in tempi nucleari non ci converrebbe fare violenza, pena la potenziale uccisione nostra e perfino dello stato (non siamo noi lo stato?).
Diventare responsabili della nostra violenza, come già avviene all’interno dello stato, vorrebbe dire tante, enormi, altre cose nel sociale, in economia, nelle attenzioni al clima, oltre ad evitare altre guerre.
Questo incontro di una cinquantina di centri universitari indirizzato alla Pace e alla nonviolenza è una iniziativa importantissima.
Ma non si potrebbe legare con altre realtà che hanno indirizzi simili? ad esempio ICAN questo “prodotto” della società civile che ha collaborato per la stesura del Trattato di proibizione delle armi nucleari, che inizierà ad avere la sua validità dal 22 gennaio prossimo. Vi è un gruppo Rete Pace e Disarmo che riunisce tanti diversi gruppi dalle Acli all’Arci, Pax Christi e altri ancora. Ci sono le donne della WILPF che stanno presentando un progetto di riconversione della fabbrica di bombe RVM in Sardegna con altre Associazioni locali e un mondo variegato di altre Associazioni contro la guerra.
Ovviamente il discorso vale anche per i gruppi citati cui faremo avere la stessa richiesta che stiamo chiedendo alle Università. Credo si convenga che “l’orto” della Pace più grande sia, possa avere maggior peso, nell’interesse di tutti.
Infatti il 10 dicembre di ogni anno, giorno internazionale per i diritti umani, viene lanciata la Rete delle Università per la Pace (Runipace), promossa dalla CRUI, con eventi in tutta Italia, qui il programma: https://www.runipace.org/eventi-locali/
Scuola Normale, Scuola Sant’Anna, IMT Lucca e Università di Pisa organizzano una conferenza con i rettori, coordinata da Enza Pellecchia, coordinatrice nazionale di Runipace, Lorenzo Bosi è il referente per la SNS, a seguire il seminario di Mario Pianta.
Proteste e politiche del movimento per la pace in Italia
La Rete delle Università per la Pace è nata a dicembre del 2018 per iniziativa dei rettori delle Università di Pisa, Paolo Mancarella, e di Brescia, Maurizio Tira, che ne proposero la creazione all’Assemblea della CRUI. Il Centro Scienze per la Pace di Pisa è stato indicato come struttura di coordinamento.
Alla rete RUniPace (www.runipace.org/) aderiscono più di cinquanta università per contribuire a rafforzare il legame tra pace, diritti umani, democrazia, giustizia e progresso sociale. Attraverso attività all’interno del mondo accademico e il dialogo con le organizzazioni della società civile e le scuole, la rete persegue le finalità di promuovere – nella ricerca, nella didattica e nella terza missione – la riflessione sulla responsabilità sociale di tutte le discipline e l’attenzione alla costruzione e al consolidamento della pace con mezzi pacifici; favorire la nonviolenza come approccio alla risoluzione dei conflitti per costruire una cultura del dialogo, del rispetto, dell’inclusione, della solidarietà e della condivisione; promuovere la solidarietà e la comprensione reciproca tra i popoli; favorire l’educazione alla pace, alla nonviolenza, alla non discriminazione e al dialogo; valorizzare il ruolo delle donne nei processi di pace ad ogni livello e creare le condizioni favorevoli alla leadership delle giovani generazioni nei processi di pace.
Garantire una dimensione globale all’educazione alla cittadinanza: un approccio cooperativo all’apprendimento degli studenti all’interno di Agenda ONU 2030
Evidenziamo alcuni ambiti specifici di miglioramento dell’educazione formale e proponiamo i seguenti punti per l’educazione alla cittadinanza attiva e globale
L’amore e l’interesse per la natura sono stati la forza motrice del progetto “Educazione e ambiente”, un viaggio nel quale i miei colleghi e io ci siamo confrontati all’unisono. È servito a stimolare numerose discussioni pedagogiche e ha incoraggiato l’applicazione di diverse teorie educative.
L’amore e l’interesse per la natura sono stati la forza motrice del progetto “Educazione e ambiente”, un viaggio nel quale i miei colleghi e io ci siamo confrontati all’unisono. È servito a stimolare numerose discussioni pedagogiche e ha incoraggiato l’applicazione di diverse teorie educative.
Il mio amore per la natura e l’interesse verso l’educazione all’ambiente sono stati la forza motrice che mi ha motivata nell’impegnarmi a preparare un progetto sull’educazione ambientale.
All’inizio del mio percorso da insegnante, presso l’Istituto Comprensivo Prati – Rodari di Desio (Monza e Brianza), sapevo poco in cosa consistesse un progetto di questo tipo ed ero preoccupata che avrebbe potuto interferire con il mio programma scolastico. Essendo il mio primo anno da insegnante, l’idea mi suonava audace eppure ho deciso di lanciarmi.
Il cambiamento climatico era già sulla bocca di tutti, ma non molti studenti avevano avuto l’opportunità di riflettervi. Quindi sapevo fin dall’inizio che questo sarebbe stato un argomento del tutto nuovo per la maggior parte di loro.
Uno dei principali scopi del progetto era di creare consapevolezza sulla crisi ecologica che il mondo intero sta affrontando, il riscaldamento globale e le conseguenze ambientali sociali.
Ero consapevole che molti ragazzi erano ignari dei danni che gli abitanti del mondo sviluppato stanno causando attraverso le loro abitudini quotidiane. Ho pensato di utilizzare i vari mezzi di comunicazione per introdurre loro il concetto di riscaldamento globale.
Quando ho iniziato a raccogliere informazioni, mi sono resa conto di quanto poco fossi consapevole io stessa dell’argomento. Più indagavo, più prendevo coscienza della vastità della materia in questione della preparazione che il progetto richiedeva per essere organizzato adeguatamente.
Con il riscaldamento globale sullo sfondo, abbiamo studiato il concetto di disgelo e solidificazione, abbiamo girato attorno al globo ed esplorato i vari continenti, il Polo Nord e il Polo Sud, solcato gli oceani e conosciuto le differenti nazioni e culture. Queste sono state tutte lezioni interessanti che gli studenti hanno adorato, dato che esse implicavano anche lo svolgimento di diverse attività manuali. Attraverso questo processo, i ragazzi sono stati incoraggiati ad andare oltre la mentalità della piccola cittadina e di considerarsi come cittadini globali. I ragazzi hanno anche sviluppato un’ampia visione dell’ambiente. Non disegnano più soltanto il giardino della scuola e gli alberi circostanti, il parco giochi del loro paese, quando viene chiesto loro qualcosa sull’ambiente, ma accennano anche ad animali selvaggi, montagne, laghi, foreste, deserti e ogni sorta di animali e piante selvatiche che fanno parte dell’ambiente immediatamente loro circostante.
Il progetto
Naturalmente, il principale obiettivo del progetto non si limitava alla conoscenza della catastrofica situazione del pianeta. L’idea del progetto è di sviluppare tra gli studenti una consapevolezza dell’essere cittadini responsabili di un mondo globalizzato e di prenderne i relativi provvedimenti, cosa che abbiamo fatto. Fin dall’inizio, in modo da massimizzare l’efficacia del progetto, la classe è stata d’accordo sul fatto che ogni ragazzo avrebbe riportato all’esterno dell’aula le conoscenze discusse in classe in modo da creare maggior consapevolezza della cittadinanza e magari oltre. Dopo alcune lezioni, gli studenti si sono sentiti sempre più coinvolti nelle attività e vogliosi di iniziare a diffondere informazioni, aumentare la consapevolezza tra i loro genitori, nonni, parenti e amici. Un altro passo cruciale è stato mosso nel dare un buon esempio di come applicare i principi dell’educazione ambientale in classe. Abbiamo iniziato a mettere in pratica lo slogan “riduci-riusa-ricicla”.
Gli studenti hanno cominciato a utilizzare in maniera più accorta i propri quaderni sprecando meno carta, a raccogliere materiali che avrebbero potuto essere utili in classe e a differenziare i rifiuti. Anche l’idea di suscitare maggiore consapevolezza tra le famiglie degli studenti ha dimostrato di essere efficace.
Entro un periodo di tempo veramente breve i ragazzi sono venuti a scuola vantandosi delle buone pratiche che le loro famiglie avevano adottato, come la differenziazione dei rifiuti, il risparmio della corrente elettrica, un uso più limitato delle auto nei tragitti brevi.
Sono sicura che questo progetto ha lasciato un segno nella mente di ogni ragazzo. A un certo punto, un cambiamento nelle loro abitudini è diventato piuttosto evidente. Era chiaro che non si sentivano responsabili solo per quello che stava accadendo nel loro ambiente circostante, ma anche per quanto stava succedendo negli altri paesi, anche se questi erano distanti vari chilometri.
Hanno imparato che gli orsi polari, le rondini artiche, i pinguini stavano cadendo vittime dello stile di vita che gli esseri umani avevano adottato nel mondo sviluppato.
Hanno imparato che il nostro eccessivo uso di carburanti fossili è la causa principale dei drastici cambiamenti climatici da cui derivano le ondate di caldo, le inondazioni, il prosciugamento del letto dei fiumi e gli uragani.
Hanno compreso che il cambiamento climatico potrebbe causare ulteriori disastri naturali, maggiore siccità e carestie e condizioni metereologiche estreme. Ad esempio un innalzamento dei livelli del mare ha già comportato lo sprofondamento di magnifiche terre abitabili.
A posteriori
Col senno di poi, si può dire che il progetto avrebbe potuto svolgersi più lentamente, sviluppandosi in un periodo di tempo più lungo. Mi è parso che a un certo punto gli studenti siano stati sovraccaricati dell’ammontare di informazioni che il tema del cambiamento climatico comporta. Il tema è vasto e anche se abbiamo sfiorato solo la punta dell’iceberg, siamo stati portati a trattare molti argomenti diversi in modo da consentire di iniziare a mettere insieme i pezzi del mosaico. Alcuni studenti si sono impegnati particolarmente per poter elaborare le informazioni e i numerosi nuovi concetti loro presentati durante il periodo di tempo assegnato.
Il progetto “Educazione e ambiente” è stato un viaggio nel quale i miei colleghi e io ci siamo confrontati all’unisono. È servito a stimolare numerose discussioni pedagogiche e ha incoraggiato l’applicazione di diverse teorie educative.
Ci siamo consultati spesso gli uni con gli altri, condiviso i nostri pensieri e idee per migliorare la nostra pianificazione curricolare e le tecniche didattiche. Questo senso di collegialità non ha solo rafforzato le nostre relazioni professionali, ma ci ha anche aiutati ad apprezzare le strategie messe in campo dagli uni e dagli altri. Un ulteriore valore aggiunto è consistito nel fatto che il mio stesso entusiasmo è stato percepito e apprezzato dai ragazzi, contribuendo ad aumentare la loro stima nei miei confronti. Sono felice di affermare che il progetto è stato piacevolmente produttivo. Ha dato prova di essere un’esperienza positiva non solo per i giovani partecipanti, ma anche per me in quanto insegnante alle prime armi. Mi ha aiutata a comprendere quanto certi sforzi portino un respiro d’aria nuova in classe, e allo stesso tempo preservino in noi educatori l’entusiasmo, rendendo inoltre l’intera scuola orgogliosa degli obiettivi raggiunti lungo tutto il percorso e il processo.
La scuola non può essere più rappresentata unicamente come uno spazio meramente fisico: la didattica a distanza pone in contatto con l’altro e l’altrove. La partecipazione a comunità virtuali di scuole genera motivazione tra gli studenti e nuove metodologie derivanti dall’apprendimento cooperativo.
A scuola con Agenda Onu 2030A scuola con progetti di sviluppo dell’educazione all’attivismo partecipativo in base agli obiettivi di Agenda Onu 2030
Un progetto di sviluppo dell’educazione alla cittadinanza attiva con Agenda ONU 2030, in itinere, a partire dall’Istituto Comprensivo Margherita Hack di Nova Milanese, vuole nascere con l’obiettivo di dare vita a processi di lavoro cooperativi, partecipativi e democratici attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie. L’attività può essere organizzata come uno spazio interattivo e alternativo per la partecipazione e lo scambio tra studenti di differenti realtà geografiche, culturali, economiche e sociali, attraverso l’uso delle tecnologie informatiche e comunicative.
Il filo conduttore di questa proposta è la pretesa di contribuire a formare alla cittadinanza globale, considerando che intendiamo cittadini nella cittadinanza globale coloro che si caratterizzano per essere coscienti della complessità del mondo e per avere una consapevolezza del proprio ruolo come abitanti dello stesso e con i propri diritti e doveri. Di conseguenza, noi stessi come cittadini attivi siamo capaci di provare indignazione di fronte a qualunque ingiustizia sociale, di rispettare e valorizzare la diversità come fonte di arricchimento umano, conoscere come funziona il mondo a livello economico, politico, sociale, culturale, tecnologico e ambientale: ci sentiamo e siamo responsabili delle nostre azioni, al fine di partecipare, impegnarci, contribuire con la nostra comunità, a livello locale e globale nello scopo di ottenere un mondo più equo e sostenibile.
Gli obiettivi generali che si propone un progetto sulla cittadinanza attiva con Agenda ONU 2030 sono molteplici, come promuovere un’esperienza di partecipazione politica in cui i ragazzi e le ragazze abbiano l’opportunità di conoscere vari strumenti democratici attraverso il dialogo interculturale di contesti sociali, economici e geografici diversi, per promuovere uno spazio di lavoro cooperativo attraverso le tecnologie informatiche e comunicative, a partire dal ragionamento sul proprio contesto e dalla conoscenza della realtà del resto dei partecipanti, prendendo coscienza della povertà e della distribuzione ineguale delle risorse del nostro pianeta, per elaborare insieme una proposta di impegno per sradicarle.
Con la collaborazione tra alunni e insegnanti di scuole di diversi luoghi geografici per favorire la conoscenza reciproca, condividere realtà diverse e scoprire problemi comuni ci si basa sul motto “pensare globalmente e agire localmente”.
La proposta educativa ruota intorno a un tema rilevante legato alla cittadinanza globale che ci permette di lavorare sugli obiettivi stabiliti e i temi trattati sono: diritti del lavoro, diritti umani, pace, povertà, acqua, cambiamento climatico, disarmo nucleare.
La proposta elaborata riguarda l’attuale modello di sviluppo, focalizzandosi soprattutto su energie, pace e disarmo. Lo svolgimento di un progetto sulla cittadinanza attiva si struttura in varie fasi.
Una prima fase consiste nella formazione degli insegnanti partecipanti ed è finalizzata a far familiarizzare i docenti con l’ambiente virtuale e con le attività educative proposte oltre che a farli entrare in contatto con i colleghi che partecipano da altre scuole di vari paesi.
Poi sussiste la fase che si basa su una proposta di telematica di lavoro con gli studenti. Le attività sono concepite per essere realizzate in Internet, ma tutto il lavoro che viene sviluppato si basa su azioni e attività necessarie in classe e spesso anche sul territorio. I partecipanti hanno la possibilità di conoscere diversi modi di intendere il mondo, ma devono anche saper discutere e giungere a punti di incontro con i partecipanti virtuali e soprattutto con i propri compagni di classe.
Attraverso il dibattito e il ragionamento, si cerca di elaborare un impegno collettivo che contribuisca alla costruzione di una società più giusta e solidale. La somma del lavoro svolto in classe e di quello realizzato in Internet permetterà di arrivare a punti di convergenza che aiutino proprio a elaborare le conclusioni e gli impegni finali.
Il progetto prevede un nuovo paradigma di conoscenza che viene costruito insieme dagli insegnanti e dagli alunni dove gli alunni sono produttori attivi, scopritori e creatori della propria conoscenza. L’apprendimento è sociale e necessita di un contesto di comunità per generare una motivazione intrinseca e gli scambi personali e relazionali tra alunni, e tra insegnanti e alunni sono proficui attraverso l’apprendimento cooperativo in classe con altre comunità scolastiche.
La scuola non può essere più rappresentata unicamente come uno spazio meramente fisico: la didattica a distanza pone in contatto con l’altro e l’altrove. La partecipazione a comunità virtuali di scuole genera motivazione tra gli studenti e nuove metodologie derivanti dall’apprendimento cooperativo.
Propongo di lavorare alla tessitura, all’incrocio costruttivo dei fili concettuali e dei teoremi virtuali costituiti dai nostri vissuti come educatori e attivisti di pace e nell’impegno per la nonviolenza nelle nostre riflessioni e nei nostri scritti.In quest’ottica, vivo esperienze educative su valutazioni scaturite dall’osservazione critica di diversi percorsi riconducibili all’indicazione dell’educazione per una cittadinanza attiva e globale, consapevole dell’utilità di trattare in rete temi cruciali e di rilevanza globale come diritti umani, discriminazione e integrazione, cambiamento climatico, consumo critico, rispetto dell’ambiente naturale, energie alternative, disarmo nucleare, e di quanto sia importante per le compagne e i compagni di viaggio muoversi con maggiore conoscenza e coscienza del mondo interconnesso in cui viviamo.
Se la democrazia la imparo soprattutto praticandola a partire da me stessa, questo può essere importante e generare cambiamenti, in giovani e meno giovani, che contribuiscono a renderli cittadini responsabili, attivi e solidali, cittadini consapevoli e con i piedi ben piantati nel XXI secolo, capaci di trasformare in meglio e in direzione democratica “ostinata e contraria” la società. Altrettanto importante è analizzare come sono organizzate la scuola e la società, come si sta in classe e nel mondo, come si sta insieme, come si costruisce l’apprendimento e come si gestiscono le dinamiche relazionali. Così appare cruciale una pratica di insegnamento, e al contempo di attivismo civile di pace, che permetta il protagonismo di chi, mentre apprende, costruisce il proprio percorso di autonomia.
Prospetto così l’importanza del ruolo dell’insegnante e dell’attivista sociale, facilitatrice e facilitatore del processo di apprendimento, e non veicolo di contenuti preconfezionati.
Un altro punto fondamentale mi appare lo stare dentro il gruppo, predisponendomi ad apprendere e a riportare i contenuti nei miei scritti, stimolata dalle persone con le quali mi vado a relazionare nell’azione educativa, di attivismo e di impegno civile. Può crearsi un circolo virtuoso la cui forza centripeta è la voglia di apprendere dalla situazione vissuta e nello stesso senso lavorare in rete tra attiviste e attivisti, educatrici e educatori. Non tanto un modo per difendere e diffondere dei saperi, quanto un modo, un tempo e uno spazio per costruire apprendimenti sulla base di una forte visione comune e per continuare a formare sé stessi, riversandosi nei propri scritti.
Rivivo delle esperienze fatte, proposte educative, percorsi, valutazioni, riflessioni di insegnanti e compagni attivisti, insomma di tutto ciò che, a partire dalla pratica scritta, può anche offrire a chi legge spunti per ragionare sull’efficacia e sulla coerenza delle azioni rispetto ai convincimenti teorici, ed anche sulle difficoltà dell’essere coerenti all’atto pratico del fare scuola, così come all’atto del realizzare qualsiasi altra azione civile. L’intento può essere quello di fornire esperienze modello magari da replicare, ma soprattutto nell’ottica di stimolare il pensiero critico su quanto accade nella pratica reale, tra cose positive e negative, punti deboli e punti di forza dei percorsi e processi educativi che vogliono contribuire a formare persone capaci di imparare come poter lottare contro ingiustizie e iniquità. Anziché proporre modelli, può essere più interessante provare a mettere al centro l’apprendimento che scaturisce dalla pratica e dallo sviluppo dell’esperienza stessa e dalla sua lettura a posteriori: un apprendimento che può portare la costruzione autonoma, ma non autarchica e prevaricatrice, del proprio originale scritto da rimettere continuamente in discussione, passando dal vaglio di esperienze future che solo relazioni reciproche possono favorire.
Nello scambiarsi le esperienze, vi sono anche dei rischi, come quello di presentarle sempre come buone pratiche.
Ma cos’è una buona pratica? Forse quella che vede compiersi ciò che si era previsto inizialmente, o invece quella grazie a cui, non ottenendo quanto pensato e programmato, si è potuto apprendere molto? A volte nella distanza tra il progetto e il processo, nello scarto tra ciò che avrei voluto realizzare e ciò che effettivamente ho realizzato sta la parte potenzialmente più arricchente della mia esperienza di attivista e di giornalista. A condizione che ci sia un ripensamento critico sul cammino fatto. Una lettura del processo della mia esperienza tramite una analisi scritta può consentire di andare più in là della fotografia di ciò che resta dopo un percorso didattico e di attivismo, di costruire riflessioni teoriche, apprendimenti da scambiare. Lo scritto mi obbliga a decostruire e ad interpretare quanto accaduto, a sfidare me stessa. Mettere soprattutto in comune apprendimenti per poi riflettere insieme è considerevolmente diverso dal fare resoconti di azioni educative, o di alcune azioni civili realizzate.
Quanto scrivo diventa un contributo qualitativamente differente grazie alla condivisione stessa (di riflessioni, ragionamenti, emotività, e tutto ciò diventa uno scambio intimo che contribuisce alla creazione di relazioni) e per i risultati, potendo imparare dal pensiero di un altro educatore, da un’azione che mai intraprenderò e dal confronto. E allora provo ad alimentare lo scambio e gli scambi futuri ripartendo da pratiche e percorsi educativi svolti con esperienze molto diverse tra loro, in quanto tipologia di pratica, in quanto innovazione, impegno richiesto nel coinvolgimento di altri attori, e molto probabilmente anche in quanto incisività, ma accomunando il tutto con l’altro da me e con i mezzi a mia disposizione, cercando di contribuire all’intento di creare la costruzione di una cittadinanza globale responsabile, attiva e solidale.
La scuola non può essere più rappresentata unicamente come uno spazio meramente fisico: la didattica a distanza pone in contatto con l’altro e l’altrove. La partecipazione a comunità virtuali di scuole genera motivazione tra gli studenti e nuove metodologie derivanti dall’apprendimento cooperativo.
Progetto di Nadia Scardeoni che ha la Mission di avvicinare le giovani generazioni all’arte sacra e liturgica delle confessioni religiose presenti nel territorio, di educare nelle classi multiculturali e tracciare sentieri di condivisione pacifica, favorendo incontri rispettosi tra diverse culture.
Una produzione dell’associazione Ita-Nica e della cooperativa EquAzione della Comunità di base “le Piagge”
Questa non è una semplice agenda, maneggiare con cautela! Si chiama eduCARE, fa incontrare l’arte di educare, per andare oltre e aprire nuove strade, con l’azione dell’I care, del prendersi cura, del non fare il menefreghista. L’EquAgenda presenta concetti sparsi che pensiamo utili per guardare con rinnovato coraggio e vigore il cambiamento che ci attende e che sembra spaventarci.
Insegnanti, scrittori, poeti, genitori, pedagogisti, attivisti, volontari e cittadini ci regalano perle di saggezza che vogliamo condividere con voi.
Contributi di:
Edoardo Albinati, Giuseppe Bagni, Danilo Dolci, Francoise Dolto, Paulo Freire, Giulio Girardi, Janusz Korczak, Alex Langer, Mario Lodi, Franco Lorenzoni, Loris Malaguzzi, Alberto Manzi, Lorenzo Milani, Maria Montessori, Daniel Pennac, Clotilde Pontecorvo, Massimo Recalcati, Gianni Rodari, Scuola degli Adulti delle Piagge, Bruno Tognolini, Simone Weil, Mariapia Veladiano.
Abbiamo pensato di chiederti se puoi ordinare una o piú copie di EquAgenda per fare un bel regalo in occasione delle feste ad amici. E’ un bel regalo equo! Il tema quest’anno è “EduCare”.
Viva la solidarietà !!! Questo anno, oltre che finanziare i soliti progetti di tutti gli anni, soprattutto con i due uragani, ETA e IOTA, che hanno distrutto tutto il Nicaragua e il Centroamerica, ci sarà ancora piú bisogno di aiuti umanitari ed invece ci troveremo con meno entrate!
Il ricavato sosterrà i vari progetti dell’Associazione Ita Nica Cooperazione
Associazione Ita – Nica
IBAN del conto di Banca Etica: IT17W0501802800000011333622
Potete anche pagare con un bonifico a Associazione Ita – Nica Cooperazione con IBAN: IT17W0501802800000011333622 e comunicare a me l’ordine per mail o telefono cell. N. 3409675268 (anche con messaggio watsapp) mandando l’indirizzo per farvela recapitare. Grazie
Intervista a Vittorio Agnoletto sul suo ultimo Libro “Senza Respiro” con prefazione del Presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. Intervista di Laura Tussi a Vittorio Agnoletto. Video di Fabrizio Cracolici
La scuola non può essere più rappresentata unicamente come uno spazio meramente fisico: la didattica a distanza pone in contatto con l’altro e l’altrove. La partecipazione a comunità virtuali di scuole genera motivazione tra gli studenti e nuove metodologie derivanti dall’apprendimento cooperativo.
Progetto di Nadia Scardeoni che ha la Mission di avvicinare le giovani generazioni all’arte sacra e liturgica delle confessioni religiose presenti nel territorio, di educare nelle classi multiculturali e tracciare sentieri di condivisione pacifica, favorendo incontri rispettosi tra diverse culture.
In collaborazione con Fabrizio Cracolici, è stato creato un ambito, un nuovo spazio, in un innovativo settore culturale dal titolo Pace per l’umanità dagli amici e compagni della storica rivista delle comunità e delle realtà di base, nata sulla scia del concilio Vaticano secondo, dal titolo emblematico Tempi di fraternità, per ampliare il sito della rivista che si occupa e tratta approfonditamente vari temi importanti, dall’ecumenismo al dialogo interculturale e interreligioso.
Con Fabrizio Cracolici, all’interno di questo sito nel nuovo ambito dal titolo Pace per l’umanità, scriviamo e pubblichiamo articoli riguardanti i più svariati temi della pace e della nonviolenza, dell’antifascismo, dell’accoglienza, della non discriminazione, delle pari opportunità, affrontando anche le grandi questioni relative all’ampio panorama del disarmo nucleare, della denuclearizzazione dal basso e della proibizione delle armi nucleari a livello di trattati internazionali Onu. Gli amici e compagni di Tempi di Fraternità ci hanno regalato una grande opportunità: un importante spazio e ambito culturale da coltivare nell’ambito del sito della rivista Tempi di Fraternità al fine di porre in risalto le competenze, i concetti e le azioni, tradotte in buone pratiche in tutti questi anni di attivismo sociale e civile per crescere nella costruzione, da realizzare insieme, di un’educazione alla cittadinanza attiva e globale a partire dai grandi obiettivi dell’agenda ONU 2030 e della carta della terra: la pace per l’umanità.
Sezione Pace per l’Umanità all’interno del sito della Rivista Tempi di Fraternità:
Progetto di Nadia Scardeoni che ha la Mission di avvicinare le giovani generazioni all’arte sacra e liturgica delle confessioni religiose presenti nel territorio, di educare nelle classi multiculturali e tracciare sentieri di condivisione pacifica, favorendo incontri rispettosi tra diverse culture.
Dal giovanile incontro con Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink, ai progetti futuri con il vignettista Mauro Biani. “Insieme agli amici di PeaceLink – spiega – abbiamo lanciato la piattaforma sociale.network, una alternativa alle piattaforme social orientate al profitto”.
Viviamo un misto di dolore per la tua improvvisa partenza e di gratitudine per aver camminato insieme per tanti anni godendo della tua amicizia, competenza e insaziabile amore per la vita. Siamo vicini alla tua famiglia, ai tanti che ti hanno voluto bene.
Reconnecting with your religious heritage: quando le radici si incontrano a scuola
“Conosci il tuo patrimonio religioso” – Progetto Unesco
Progetto di Nadia Scardeoni che ha la Mission di avvicinare le giovani generazioni all’arte sacra e liturgica delle confessioni religiose presenti nel territorio, di educare nelle classi multiculturali e tracciare sentieri di condivisione pacifica, favorendo incontri rispettosi tra diverse culture.
Mission del programma di Nadia Scardeoni: avvicinare le giovani generazioni all’arte sacra e liturgica delle varie confessioni religiose, presenti nel territorio; educare, ad una visione ecumenica dei “valori e sistemi di credenze” che possono emergere nelle comunità scolastiche multiculturali; tracciare sentieri di condivisione pacifica favorendo incontri rispettosi e fecondi tra diverse culture.
“Reconnecting with your culture”
Il progetto internazionale a cui si ricollega Nadia Scardeoni è coordinato dall’artista colombiano Kevin Alexander Echeverry Bucuru, dell’Universidad de Bogotà Jorge Tadeo Lozano, con la supervisione scientifica della prof.ssa Olimpia Niglio, direttrice del centro di ricerca internazionale ed a Esempi di Architettura, che da anni lavora tra il continente americano e asiatico per valorizzare le diversità culturali. E’ un progetto in linea con le direttive “Initiative on Heritage of Religious Interest” dell’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura).
Il progetto è indirizzato alle scuole primarie e secondarie di tutto il mondo e alla fascia di età compresa tra i 5 e i 17 anni. I ragazzi, con i loro insegnanti, sono invitati a compiere un viaggio esplorativo all’interno del patrimonio culturale del paese di appartenenza e a disegnare e raccontare la propria esperienza di conoscenza, a contatto con l’eredità storica, artistica e culturale. Il progetto intende anche analizzare i differenti approcci culturali e i metodi di analisi approntati nelle diverse comunità del mondo al fine di realizzare una rete e di consentire la condivisione di esperienze e di iniziative.
Premesse
In una fase storica molto complessa, in cui le priorità capitalistiche hanno messo in forte discussione i valori etici e le relazioni umane, si avverte l’esigenza di rimettere al centro la persona e la sua creatività. La fragilità, che tutti i Paesi hanno manifestato all’interno del settore culturale ed educativo, ha consentito di elaborare riflessioni fondamentali per donare una “nuova centralità” al ruolo della Cultura per lo sviluppo sostenibile dell’umanità. Infatti, senza la Cultura diventa veramente difficile elaborare prospettive future in grado di sviluppare politiche condivise e partecipate, non più affidate alla crescente individualizzazione.
Analizzando le realtà di diversi paesi del mondo, dall’estremo Oriente fino all’estremo Occidente, si avverte l’esigenza di attivare un nuovo “umanesimo”. Per questo è necessario che la Cultura entri a pieno titolo in tutta l’ideazione del nuovo e dell’innovazione, su cui è importante investire. Per fare tutto questo dobbiamo però iniziare dalle giovani generazioni e quindi a piantare semi per ottenere buoni frutti e quindi un ottimo raccolto nel prossimo futuro. Dobbiamo quindi saper progettare programmi educativi in grado di costruire un mondo migliore.
Sulla base di queste premesse è nato il progetto internazionale “Reconnecting with Your Culture”, promosso dal “Centro di Ricerca Internazionale “EdA Esempi di Architettura” (Italia), con il “Forum UNESCO University and Heritage” (Spagna), ICOMOS, Comité Internacional Monumentos y Sitios (Italia y Peru), Factor Cultura (Peru) e la Fondazione Štěpán Zavřel (Italia).
Il progetto “Reconnecting with your culture” si concretizza nel chiedere a bambini e ragazzi di presentare – con testo e/o disegno – ciò che considerano la loro eredità culturale: è questo lo strumento finale proposto per riversare alla Call internazionale la loro esperienza di intercettazione di beni culturali. Il progetto si propone di instillare nel cuore dei piccoli e dei giovanissimi la bellissima pratica ecumenica di ascoltarsi e rispettarsi, oltre ogni barriera linguistica, culturale e religiosa. Non mira a produrre una collezione “museale” di riferimenti locali, bensì una precisa offerta didattica, che sia fondativa di un modello relazionale strutturato sulla visione ecumenica nel condividere e valorizzare i beni reperiti. Pertanto, oltre la proposta di aderire al programma, è fondamentale offrire agli insegnanti che lo adottano supporti e riferimenti che siano utili per orientare gli allievi sull’attualità del dialogo ecumenico, per curare questo delicatissimo aspetto relazionale in linea con UNESCO “Initiative on Heritage of Religious Interest”.
E con il programma “Conosci il tuo patrimonio religioso”, con un approfondimento che restringe il campo al patrimonio di interesse religioso, verrà usato lo stesso canale per arrivare ad una precisa offerta didattica ed a fondare lo stesso modello relazionale.
Note: Per saperne di più:
Webinar 24 ottobre 2020 (meeting in Verona, Italy, in order to present the Sub.Topic “Reconnecting with your Religious Heritage”, by Nadia Scardeoni): https://youtu.be/Wm6pC-1h_eU
Viviamo un misto di dolore per la tua improvvisa partenza e di gratitudine per aver camminato insieme per tanti anni godendo della tua amicizia, competenza e insaziabile amore per la vita. Siamo vicini alla tua famiglia, ai tanti che ti hanno voluto bene.
La Fondazione Vittorio Arrigoni “Vik Utopia” Onlus: “Al di là delle latitudini e delle longitudini, apparteniamo tutti alla stessa famiglia, che è la famiglia umana”
Intervista per il lancio del Libro “Senza Respiro”
Intervista a Vittorio Agnoletto: la democrazia necessita di umanità
Intervista a Vittorio Agnoletto sul suo ultimo Libro “Senza Respiro” con prefazione del Presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. Intervista di Laura Tussi a Vittorio Agnoletto. Video di Fabrizio Cracolici
Domanda 1 – La democrazia ha bisogno di umanità, come scrive nella prefazione al libro “Senza respiro” il presidente brasiliano Lula. Lui si ricollega anche all’assassinio di George Floyd, vittima della violenza e dello strapotere poliziesco negli Stati Uniti, nella società americana squassata dalle ingiustizie, al pari di tutte le società nel mondo, ciascuna in gradi e forme diverse.
Una Umanità vessata che ovunque implora di diventare più umani, rispettosi dei diritti e della dignità della vita. Perché Lula ha accettato di scrivere una prefazione al libro dell’amico Vittorio Agnoletto?
Risposta 1
Grazie per questa domanda che mi permette di ragionare su alcuni aspetti del libro che in genere non vengono approfonditi. Ho conosciuto Lula al Forum Sociale Mondiale (WSF) di Porto Alegre nel 2001 e ci siamo rivisti all’interno del Consiglio Internazionale del WSF. Ho pensato di chiedergli di scrivere la prefazione a questo mio libro “Senza respiro” per vari motivi: primo perché siamo di fronte a una pandemia cioè a qualcosa che non riguarda solo e unicamente l’Italia, l’Europa, un continente, ma riguarda tutto il mondo e in Lula vedo una persona che è capace ed è stato capace di guardare l’orizzonte globale del mondo, ma anche tenendo i piedi molto ben piantati per terra nel suo paese e cioè in Brasile.
E quindi quando parla della pandemia – e anche in diversi discorsi recenti ha parlato della pandemia – per esempio riesce a mettere in luce un aspetto in genere che non si considera e cioè che la lotta contro il Coronavirus deve legarsi all’impegno per “costruire un mondo di opportunità uguali per tutti, in cui la vita, i diritti umani e l’ambiente siano valori reali e impossibili da spezzare.” Infatti, il virus ovviamente può colpire tutti: sia la persona ricca come la persona povera; ma l’evoluzione della malattia dipende dai determinanti sociali e cioè da come una persona vive nella sua vita quotidiana. Se deve andare al lavoro o può lavorare da casa in smart-working e recarsi a lavoro con un mezzo proprio o andarci con un mezzo pubblico: in questo momento mezzi pubblici sono un ambito molto a rischio per le infezioni. Oppure se vive in una grande casa; oppure se vive in 40 metri quadri con quattro persone, solo per fare degli esempi. Le condizioni di vita incidono molto sulla possibilità o meno di evoluzione della malattia. Lula in vari suoi interventi ha descritto la situazione che esiste in Brasile, per esempio, le condizioni delle popolazioni dell’Amazzonia abbandonate completamente a sé stesse senza nessuna assistenza sanitaria. Nella prefazione al libro Lula alza lo sguardo e si domanda come sia possibile che l’ONU non abbia assunto il coordinamento degli sforzi mondiali per fronteggiare la pandemia e perché il Fondo Monetario Internazionale non ha cominciato a fare prestiti agevolati ai Paesi che ne hanno maggior necessità. E’ una domanda, credo, assolutamente legittima che ovviamente rimane senza risposta. Poi si evidenzia un altro aspetto importante nelle riflessioni di Lula quando scrive: “Il futuro post pandemia non è garantito per nessuno. E’ oggetto di conflitto. Coloro che si affrettano a annunciare il ritorno alla vecchia normalità si riferiscono con tale espressione alla piena restaurazione dell’iniquità del passato e di un presente caduco che la pandemia ha squadernato e ingigantito” e prosegue “non ci sono precedenti di un ritorno alla normalità dopo una rottura dell’intensità e dell’ampiezza di una pandemia o di una guerra” e aggiunge che chi, come noi, vuole cambiare la situazione attuale ha di fronte una grande missione. Qui si evidenzia un ragionamento che riguarda tutti noi. La pandemia non è una parentesi della Storia, superata la quale è sufficiente tornare a come il mondo era in precedenza. E’ proprio quello specifico modello di sviluppo – fondato sullo sfruttamento della natura in ogni angolo della terra, sul disboscamento e sugli allevamenti intensivi, solo per fare degli esempi – che produce i cambiamenti climatici e che ha favorito il salto di specie di vari agenti infettivi tra i quali quello che ha prodotto questa pandemia.
Quindi non dobbiamo tornare indietro, ma andare in avanti verso un mondo diverso; i cambiamenti nel modello di sviluppo devono viaggiare parallelamente ad una differente redistribuzione della ricchezza mettendo al centro l’uguaglianza e le libertà di tutti.
Domanda 2 – Il presidente Lula sostiene che la nostra comune umanità deve agire in modo coordinato, solidale e cooperativo per non rimanere “Senza respiro”, che non è solo un sintomo del virus pandemico, ma è una metafora dei nostri tempi affannosi, alla ricerca di soluzioni globali, di salde svolte a livello planetario. Come può avvenire, secondo te, che sei stato portavoce del Social Forum globale, tutto questo grandioso processo umano, che aveva mosso i suoi primi passi con il movimento alter-global arrestato durante la brutale repressione e soppressione dei movimenti e degli attivisti ecopacifisti che manifestavano contro il G8 di Genova 2001?
Risposta 2
Il libro “Senza respiro” è una cosa vera.
Rappresenta un’immagine reale. Non è solo una metafora. Ho intitolato il libro “Senza respiro” perché purtroppo molte persone durante questa pandemia, anche qui da noi in Italia, in particolare in Lombardia, sono decedute abbandonate a sé stesse e sono state “scartate” dalla possibilità di utilizzare le terapie disponibili perché non esistevano abbastanza macchinari per tutti e i miei colleghi hanno dovuto scegliere tra chi assistere e chi abbandonare al proprio destino.
Il libro si apre con una drammatica testimonianza di un primario che è interrogato da un familiare di una persona ricoverata e infettatasi in ospedale con il Coronavirus; il familiare ha l’impressione che suo fratello sia stato messo da parte e spostato su una “corsia laterale”, trasferito in un ospedale dove non esiste un dipartimento di emergenza e che si sia rinunciato a curarlo.
Il primario risponde al familiare: “Suo fratello se sta qui è morto. Se dovesse peggiorare, non potremmo più intubarlo. La dove andrà, abbiamo allestito un reparto protetto ma voglio dirle una cosa a proposito della sua domanda sulle scelte. Io sono un credente e nei giorni scorsi sono andato dal mio confessore e ho chiesto tramite lui perdono a Dio. Ho chiesto perdono per le scelte che sarò costretto a fare. Mi creda non è il caso di suo fratello. Faremo di tutto per tenerlo da qui, sotto osservazione, ma sarà tremendo per me…” Il medico sta spiegando che deve scegliere a chi somministrare le terapie e chi invece sarà lasciato al suo destino.
Quindi “Senza respiro” è qualcosa di reale che è accaduto, che abbiamo vissuto e che stiamo sperimentando in questi mesi.
“Senza respiro” però è anche l’immagine di un pianeta di un mondo che non riesce a respirare. Cosa accade quando noi respiriamo? Inspiriamo ossigeno, introiettiamo nuove energie che permettono di rimettere in moto tutto il nostro organismo.
E’ quello che il nostro pianeta non riesce più a fare.
Il livello di sfruttamento che gli esseri umani hanno praticato sulla terra e sugli altri viventi è andato oltre ogni limite. Ma il titolo “Senza Respiro” è metafora anche di un’altra realtà: di una umanità che rischia di non avere più prospettive e la pandemia è un segnale su quale scenario futuro potrebbe aspettarci se noi scegliessimo di andare avanti con questo modello di sviluppo.
Siamo noi, l’umanità, che non respiriamo e Lula giustamente riporta il discorso collettivo anche a un esempio individuale e singolo, l’immagine di George Floyd, fissando nella mente di ciascuno un’immagine, un evento che tutti quanti ormai conosciamo. Ecco perché la lotta contro questa pandemia è indissolubilmente legata alla lotta per un mondo diverso. Ma in questa tragedia vi è anche un altro messaggio importante che arriva a noi tutti. Davanti a una pandemia nessuno può risolvere la questione da solo. Possiamo cercare di risolvere la pandemia solo mettendoci tutti insieme e durante la pandemia scopriamo, ma io direi, tocchiamo con mano, qualcosa che abbiamo sempre detto, ma purtroppo in molti ci hanno accusato di essere idealisti o ideologici. No. Tocchiamo con mano una cosa semplicissima: se io metto la mascherina difendo la mia salute, ma difendo anche la tua e la vostra salute. E se tu metti la mascherina difendi te stesso, ma difendi anche me. Esiste un destino che ci lega attraverso dei comportamenti individuali e collettivi. La storia recente dell’umanità dimostra che, di fronte a tutte le epidemie sostenute da agenti infettivi trasmissibili, conta molto anche l’assunzione di responsabilità individuale e collettiva delle persone. Quest’aspetto può fare la differenza. E’ interessante osservare come la pandemia è gestita in altri Paesi dove vi è molta più abitudine ad agire collettivamente e dove la cura della salute non è solo delegata agli esperti, ma fa parte anche dell’esperienza quotidiana delle persone attraverso una maggior attenzione alle regole della convivenza sociale, attraverso percorsi di formazione realizzati durante il corso della vita di ciascuno.
Penso a quello che ad esempio sta accadendo a Cuba, ne abbiamo avuta una testimonianza indiretta attraverso l’esperienza delle brigate di medici cubani che sono arrivate in nostro aiuto. Da questa epidemia dobbiamo trarre anche un insegnamento che per noi diventa un incoraggiamento: serve un progetto generale collettivo a livello globale; per questa ragione sono stati molto utili i collegamenti online che abbiamo realizzato con rappresentanti della società civile organizzata e dei movimenti un po’ in tutto il mondo, dal Nicaragua fino all’Iraq; la prospettiva che ci aspetta è quella di un impegno comune. Non è un caso che le esperienze maturate nella lotta all’epidemia saranno al centro del prossimo Forum Sociale Mondiale che si realizzerà nel 2021 in Messico, per una parte dei messicani in presenza e per gli altri, ovviamente via web.
Domanda 3 – La crisi planetaria è alimentata da biechi e beceri dettami di potere del capitalismo neoliberista, nelle sue varie declinazioni, dagli squilibri tra ecosistemi ambientali che ormai arrancano sotto le pressioni e i misfatti dell’”uomo forte”, dall’assenza di controllo sanitario e dalle ingerenze negative della società che ha smarrito ogni senso del limite, e dal mancato controllo popolare sulla sanità dominata da Big Pharma, le multinazionali farmaceutiche. La nostra comune umanità e il sentimento e il sentire umano della nostra specie sono chiamate a affrontare e risolvere le gravi sfide globali, l’intreccio tra minaccia nucleare-militare, ecologica-climatica e della disuguaglianza e delle oppressioni sociali. La pandemia da covid come si inserisce in questo quadro?
Risposta 3
Non vi è dubbio, come ho già detto, che questa pandemia è un prodotto dell’attuale modello di sviluppo. Leggerei alcune frasi che ho riportato nel libro, frasi profetiche scritte da David Quammen nel famoso libro “Spillover” “Non c’è alcun motivo di credere che l’AIDS rimarrà l’unico disastro globale della nostra epoca, causato da uno strano microbo saltato fuori da un animale. Qualche Cassandra ben informata parla addirittura del Next Big One il prossimo grande evento come di un fatto inevitabile. Sarà causato da un virus? Si manifesterà nella foresta pluviale? O in un mercato cittadino della Cina meridionale? Farà 30 o 40 milioni di vittime?
L’ipotesi ormai è così radicata che potremmo dedicarle una sigla: NBO. La differenza tra HIV e NBO potrebbe essere per esempio la velocità di azione. NBO potrebbe essere tanto veloce a uccidere quanto l’AIDS è relativamente lento. Gran parte dei virus nuovi lavorano alla svelta“.
E’ impressionante pensare che queste righe, che risultano una vera e propria profezia, siano state scritte nel 2012; il medesimo autore scrive, in un’altra occasione, questa frase che, pur nella sua sinteticità, ci aiuta a capire la nostra realtà: “Invadiamo foreste tropicali e altri paesaggi selvaggi che ospitano così tante specie di animali e piante e all’interno di quelle creature così tanti virus sconosciuti. Tagliamo gli alberi, uccidiamo gli animali o li mettiamo in gabbia e li mandiamo ai mercati.
Distruggiamo gli ecosistemi e liberiamo i virus dai loro ospiti naturali. Quando ciò accade hanno bisogno di un nuovo ospite. Spesso siamo noi“. E insiste “Noi abbiamo prodotto l’epidemia di coronavirus. Potrebbe aver avuto inizio con un pipistrello in una grotta ma l’attività umana l’ha scatenata“. E credo che su questo argomento non ci sia assolutamente null’altro da aggiungere. Mentre mi pare che possiamo approfondire l’altra riflessione che hai sviluppato.
Noi siamo stati totalmente impreparati a fronteggiare questa pandemia anche per un’altra questione. Cioè per il modello di sanità dominante nei nostri Paesi.
E’ un modello di sanità tutto centrato sul profitto dove il nostro corpo è trasformato in merce a disposizione dei grandi capitali che hanno investito nel mondo sanitario. Non dimentichiamo che le strutture sanitarie private rispondono alle logiche comuni a tutte le aziende private: massimizzare i profitti. E come massimizzano i profitti? Quante più malattie e quanti più malati ci sono, tanto più guadagnano e quindi non è paradossale affermare che per le strutture sanitarie private la prevenzione non ha alcun interesse, ma non solo, è una antagonista perché sottrae malati e malattie al loro business. Ma la sanità privata è parte integrante ormai di tutti i sistemi sanitari dell’Occidente compreso il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) italiano per non parlare della nostra regione. In Lombardia il 40% della spesa corrente sanitaria pubblica va ad aziende private convenzionate con il SSN e ovviamente queste scelgono anche quali reparti convenzionare con il settore pubblico, quelli che producono maggiori profitti, come la cardiologia, l’alta chirurgia e quelli destinati alle cure delle patologie croniche. Il sistema è totalmente disinteressato a investire in dipartimenti di emergenza e a investire nei pronto soccorsi. Il disastro – e qui arriviamo all’ultimo segmento della tua domanda – è che chi gestisce la sanità pubblica molte volte, e in Lombardia è accaduto questo, ha introiettato dentro di sé il modello di sviluppo e i disvalori della sanità privata e gestisce la sanità pubblica come se dovesse gestire la sanità privata. Il che è un controsenso anche dal punto di vista economico. Perché nella sanità pubblica quanto più si investe nella prevenzione tanto meno ci sono malati e malattie e tanto più si risparmia in termini di finanza pubblica. Mentre invece chi gestisce la sanità pubblica ha scelto un modello privato. Il risultato è la distruzione della sanità territoriale considerata sanità di serie Z: assenza completa della sorveglianza sanitaria e dell’epidemiologia, abbandono dei medici di base, non realizzazione dei tamponi come strumento per individuare la diffusione del virus, finanziamenti minimi per l’assistenza domiciliare e attivazione di un numero esiguo delle Usca, le Unità Speciali di continuità assistenziale, rivolte specificatamente ai malati di Covid. Tutte queste non sono scelte casuali. Ecco perché noi abbiamo in Lombardia una sanità di eccellenza se parliamo delle ultime terapie, degli ultimi trial clinici ancora in via di sperimentazione e degli interventi chirurgici complessi e ad alta specializzazione, ma sicuramente non abbiamo una sanità di eccellenza se invece guardiamo le urgenze che noi abbiamo oggi e che richiedono un altro tipo di priorità.
Vi è inoltre un altro aspetto fortemente “patologico”: la direzione della nostra sanità, tutta la catena di comando, dipende unicamente da scelte dettate in base alla vicinanza al politico e al partito che in quel momento sono al potere. I direttori generali delle Asl e degli ospedali (che in Lombardia si chiamano ATS o ASST) sono tutti di nomina politica e a loro volta i direttori generali scelgono i direttori sanitari e quindi si realizza una catena di fedeltà e non di competenza; ne consegue che le indicazioni che vengono date non si basano sull’autorevolezza conquistata sul campo, ma sul potere che deriva dalla forza del legame che lega il dirigente al potere politico.
Domanda 4 – Perché nel libro si paragona il virus pandemico globale a una bomba nucleare prevedibile?
Risposta 4
Di fronte allo sfascio e all’incapacità della sanità lombarda di rispondere al virus, l’assessore al welfare e alla sanità della Lombardia Giulio Gallera ha cercato di giustificarsi dicendo che non potevano fare altro, che era arrivata una bomba nucleare e nessuno poteva e avrebbe potuto agire meglio di loro. Questa è una grande ed enorme bugia; se proprio si vuole paragonare l’epidemia ad una bomba nucleare, allora dobbiamo dire che era una bomba nucleare prevedibile, perché in tutti questi anni sono stati lanciati vari allarmi da ricercatori, scienziati e intellettuali.
Nel 2009 dopo l’epidemia da H1N1 l’Unione Europea ha chiesto ai governi nazionali e alle regioni di aggiornare i piani pandemici nel caso ci si dovesse trovare di fronte ad una nuova epidemia. Nel 2010 la regione Lombardia fa un audit, cioè affida a soggetti esterni l’analisi del proprio piano pandemico; questa analisi termina con un documento che, se lo leggiamo adesso, fa venire i brividi perché sono elencate tutte le cose da fare e sono esattamente gli interventi che sarebbero stati necessari e utili per fronteggiare il coronavirus. Ma nulla è stato realizzato. Per esempio, vi è scritto che il meccanismo di comunicazione tra le RSA e la sanità pubblica non funziona correttamente, non è chiaro di chi sono determinate responsabilità; vi sono indicazioni precise sia per le RSA sia per le strutture pubbliche sulla necessità di accantonare le mascherine e tutti i dispositivi di protezione individuale; si sottolinea la necessità di rafforzare l’azione dei medici di medicina generale eccetera.
Non è vero che la pandemia era un evento assolutamente imprevedibile. Ma non hanno tenuto in considerazione nessuna delle raccomandazioni arrivate da settori importanti del mondo scientifico e dalle istituzioni sovranazionali; alla fine la situazione è quella che viviamo.
Domanda 5 – “Un altro mondo è necessario, è urgente e quindi è possibile”. Rimanere senza respiro, come scritto da Lula nella prefazione, è una metafora del nostro tempo. Con lo sfruttamento feroce delle risorse di madre terra con il Giorno del Sovrasfruttamento della Terra (Earth Overshoot Day), che vede un modello di sviluppo irrispettoso degli equilibri tra tutti gli esseri umani e tra le specie viventi, l’umanità ha messo a rischio la propria sopravvivenza con le grandi problematiche che incombono su di essa: la disuguaglianza sociale, i dissesti climatici e l’attività militare che trova la sua massima espressione in una possibile e irreversibile guerra nucleare.
Risposta 5
Abbiamo affrontato questo tema. Solo una cosa vorrei aggiungere. L’Earth Overshoot Day quest’anno è arrivato quasi un mese più tardi.
E’ il giorno entro il quale, secondo gli scienziati di tutto il mondo, noi consumiamo la quantità di risorse che il pianeta è in grado di riprodurre in un anno. Tutto quello che noi consumeremo da quel momento in poi non è riproducibile dalla terra e quindi andiamo sempre verso una maggiore impoverimento del pianeta e delle sue risorse. Quest’anno quel giorno è arrivato quasi un mese più tardi dello scorso anno. Come mai? Le misure che in tanti Paesi del mondo sono state assunte con il lockdown hanno limitato il consumo di energia e lo sfruttamento del pianeta. Ma non possiamo pensare di vivere in lockdown per sempre. Non possiamo pensare di vivere chiusi in casa, per chi la casa ce l’ha. Però è un’indicazione; si può imparare a consumare di meno anche conducendo una vita quotidiana decente, senza restare chiusi in casa. E’ un messaggio importante, una riflessione che viene offerta a tutti noi.
In conclusione io direi che oggi – mentre stiamo registrando questa intervista – siamo ancora nel pieno del disastro e della tragedia e ogni sera ascoltiamo il bollettino dei morti. Per farcela, abbiamo bisogno anche di pensare al futuro con la capacità di cogliere i segnali e i messaggi che, dalla tremenda esperienza di questa pandemia, ci possono arrivare per trarre delle indicazioni sulla direzione che collettivamente dobbiamo prendere per restituire al pianeta una prospettiva di futuro.
Se avremo questa attenzione e queste capacità, tutto quello che è accaduto avrà almeno lasciato qualche messaggio di incoraggiamento e di speranza oltre a messaggi di morte. “Senza Respiro” vuole provare a dare un contributo in questa direzione.
Vorrei ringraziarvi, Laura e Fabrizio, perché in tutti questi anni state facendo un lavoro importantissimo di sollecitazione e di raccolta di testimonianze attorno ai grandi temi della nostra epoca; non sono molte le persone che, come volontari, dedicano tempo e capacità a studiare i grandi scenari che si rivelano all’umanità intera e quindi grazie a Laura e Fabrizio.
Lavorare in rete, tessere complicità e punti di forza con tutti i compagni di viaggio in cammino verso la pace e la nonviolenza
Fabrizio Cracolici
Intervista di Fabrizio Cracolici a Laura Tussi
L’importanza degli amici e compagni di viaggio per migliorare la realtà. Raccontati.
La mia esperienza di attivismo per la pace è nata a partire da fondamentali punti convergenti: un contesto sociopolitico dinamico e attraente, una pratica e un’attitudine verso un impegno disinteressato, una disposizione all’apprendimento e all’azione nonviolenta condivisa e una modalità di intervento operativa e non burocratica.
Con tanti compagni di viaggio, ci siamo dovuti coordinare per rispondere a questa sfida che era più grande di noi: l’impegno per migliorare la nostra realtà.
E ci siamo riusciti impegnandoci intensamente, ma lentamente, quotidianamente, senza precipitarci nel darci delle strutture organizzative, accettando compiti e responsabilità enormi con la convinzione che insieme avremmo potuto affrontarli con leggerezza. Abbiamo inventato programmi di formazione, fatto ricerche, recuperando memoria storica, prodotto materiale educativo, realizzato laboratori, seminari, incontri e presentazioni in pubblico.
Il lavoro in rete per l’attivismo di pace nel tessere relazioni e complicità costruttive: quali sviluppi comporta?
Il lavoro in rete per l’attivismo di pace è un modo di fare le cose che presuppone il mettersi a tessere relazioni, apprendimenti, complicità avanzando nella realizzazione di uno spazio comune, aperto e diversificato dove si possono sommare nuove iniziative, proposte e impegni. Il lavoro in rete per la pace presuppone il dedicare particolare attenzione al processo di costruzione degli spazi di incontro ed azione comune e non alla struttura organizzativa, la quale diventa secondaria e funzionale alle dinamiche dei processi individuali e dei percorsi collettivi.
Il fattore dinamizzante del lavoro attivista è trainato da obiettivi e traguardi strategici e non dal lavoro in rete in se stesso. Il senso di una rete non consiste nel rivolgersi al proprio interno, nel ripiegarsi su se stessa, ma è piuttosto in ciò che si fa verso l’esterno: qui sta la sua efficienza e la sua efficacia.
Il rispetto, la valutazione e la valorizzazione delle differenze. Quale importanza hanno?
Lavorare in rete per l’attivismo di pace presuppone, per quanto detto in precedenza, il rispetto, la valutazione e la valorizzazione delle differenze e delle diversità insite e implicite in ogni attivista e soggetto coinvolto. Queste costituiscono un fattore di rafforzamento, nella misura in cui si rispettano e si utilizzano senza imporre determinate peculiarità a discapito di altre. Per questo sono importanti il dibattito, la pianificazione e la strutturazione di obiettivi e azioni, così come la specializzazione degli incarichi, per rendere possibile la complementarità di sforzi e capacità, senza escludere, senza esclusioni e ostracizzazioni di sorta.
Accordi e disaccordi: qual è il cammino che dobbiamo imparare a percorrere?
Non dobbiamo dare per scontato che tutte le persone appartenenti a organizzazioni attorno a un medesimo proposito generale siano già completamente d’accordo. Occorre promuovere le opere di espressione di tutte le idee e visioni per trovare quelle convergenze che danno un’identità all’impegno, ma anche per conoscere le divergenze.
Un disaccordo trascurato può tradursi in fattore di conflitto che scoppia proprio per essere stato tenuto in uno stato di tensione latente per molto tempo. Troppo tempo.
E può diventare un fallimento.
Per questo, bisogna sforzarsi di trovare tutti i punti di convergenza possibili, cercando di costruire consensi di base che siano inclusivi, procedendo per accordi minimi fondati sul criterio che nessuno ha tutta la ragione né tutto il torto e occorre sempre prestare attenzione a quella parte di accordo che possa tenere insieme le varie posizioni. Promuovere una dinamica e uno spirito di apprendimento e azione reciproco implica una disposizione a condividere ciò che ognuno conosce, ma anche una disponibilità ad ascoltare e comprendere quello che altre e altri sanno: le progettualità, le idee, le istanze innovative.
Che significa condividere esperienze?
È importante perciò un’azione riflessiva critica e autocritica, che renda possibile non solo uno scambio di descrizione o racconto delle esperienze particolari, ma conduca a una condivisione degli insegnamenti che le esperienze stesse hanno lasciato. Questo compito, frutto di un processo di sistematizzazione è fondamentale, poiché permette la costruzione di un pensiero proprio condiviso a partire dai contributi di ognuno.
In tal senso, il lavoro in rete per l’attivismo di pace significa la costruzione di condizioni e disposizioni per l’apprendimento e l’azione nonviolenta.
Creare di fronte a ogni contesto, un ambito teorico che permetta la produzione di una conoscenza critica del vissuto: delle sue caratteristiche, interrelazioni, radici e esigenze. È molto importante promuovere processi e meccanismi di accumulo dell’esperienza: utilizzare registri e socializzare memorie di quanto è stato realizzato, riassumere gli accordi, lasciare una testimonianza delle valutazione dei progetti. Molte volte non compiendo tali operazioni si vanno a ripetere errori già fatti. Non si costruiscono nuovi gradini dai quali ripartire per rilanciare nuove sfide. Questa è la base per un processo di sistematizzazione delle esperienze, inteso come appropriazione critica del processo vissuto, per ricavarne i propri apprendimenti e le azioni specifiche su una determinata attività, e su molteplici iniziative in atto.
Il processo di attivismo non è lineare, né regolare, ma è asimmetrico e variabile. Perchè?
Il processo di costruzione del lavoro in rete per l’attivismo non è lineare, né regolare, ma è asimmetrico e variabile.
È fondamentale mantenere una dinamica comunicativa molto intensa, che alimenti la possibilità di restare in contatto, di apportare e ricevere contributi utilizzando tutte le forme e i mezzi possibili: scritti cartacei e elettronici, incontri personali, assemblee, riunioni, incontri, webinar per accomunare avvenimenti e socializzare proposte e decisioni. Occorre stare bene attenti: tutto ciò che si pratica deve essere trasparente nei confronti del collettivo, senza temere di evidenziare gli errori e le difficoltà.
Non può esistere lavoro per l’attivismo di pace se non è fondato sulla fiducia reciproca. Ma la fiducia non si concede gratuitamente, la fiducia si costruisce come parte di una relazione, di una sinergia, di un accordo e persino di modalità di affetto e sentimento che accomunano su ideali condivisi.
L’onestà, la franchezza e la disposizione alla critica consolidano le relazioni di una rete. Considero necessario poter contare su forme e istanze di animazione e coordinamento perché l’attivismo di pace non funziona da solo, ma come un prodotto di iniziative, proposte, relazioni, accordi e disaccordi che possono diventare strategie d’azione.
Quanto più distribuiti sono i compiti di animazione e coordinamento, con la maggior ripartizione possibile delle responsabilità, tanto più il lavoro in rete sarà dinamico e appartenente a tutti coloro che vi partecipano. Tuttavia avere linee guida o punti di riferimento è fondamentale per poter contare su legami di riferimento comuni. Legami forti, condivisi, di stima, amicizia, amore.
Legami forti, condivisi, di stima, amicizia, amore: legami di pace?
Credo nella relazione orizzontali, democratiche e reciprocamente esigenti, dove ognuno contribuisca in parità di condizioni, ma dove esistono anche dei ruoli di direzione, animazione, orientamento, articolazione e decisione.
Nel lavoro in rete circolano anche relazioni di potere, come in ogni ambito della vita. Ma queste relazioni di potere non devono essere le stesse che predominano nelle nostre società capitaliste, inique, escludenti, autoritarie, emarginanti e sopraffatte dal pensiero unico neoliberista. Possono essere relazioni di potere democratiche, sinergiche ovvero dove il potere di ognuno alimenti il potere degli altri e delle altre e dell’insieme nel suo complesso.
Relazioni di amore e legami di pace.
Dove le capacità si amplificano allo stesso modo per tutti e non solo per un gruppo che esercita e impone le sue decisioni.
Relazioni dove l’unione delle nostre capacità collettive offrano come risultato maggiore possibilità di azione di quelle che avremmo avuto singolarmente e grazie alle quali usciamo dall’incontro e dall’incarico arricchite e arricchiti da nuove risorse utili per affrontare i nuovi problemi e le complesse sfide.
La nostra crescita come persone, società, collettività e umanità. Tue riflessioni?
In sintesi l’attivismo implica una cultura e una visione di trasformazione e espressione. Per questo possiamo parlare della rete per la pace come di una cultura organizzativa. Ma non solo come nozione generale e teorica, ma come creazione quotidiana, che attraverso gli spazi di vita, la quotidianità dei rapporti e dell’esistenza, chiede di trarre da noi stessi il meglio che abbiamo, contribuendo così alla nostra stessa crescita come individui, come società, come collettività e umanità.
In tal modo, potremmo essere capaci di trasformarci come persone, nella misura in cui ci vedremo coinvolti in processi trasformatori delle relazioni sociali, economiche, politiche e culturali del contesto nel quale ci è toccato vivere.
Uniti affrontiamo le sfide globali della nostra epoca. Per arrivare dove?
Le sfide della nostra epoca sono immense e vanno oltre la lotta per la giustizia, l’equità, la pace, i diritti umani.
Questo XXI secolo, segnato da contraddizioni e dinamiche planetarie, marcato dal predominio di un modello economico, sociale, politico e culturale non universalizzabile, non sostenibile, chiede anche a quanti credono che “un altro mondo sia possibile” di lavorare con un’altra cultura politica e di costruire relazioni di potere non prevaricatrici, ma orizzontali, condivisibili e arricchenti, differenti in tutti i terreni in cui ci troviamo. Con un’altra etica, centrata sull’essere umano e una coscienza planetaria, il lavoro per la pace può diventare un’opzione efficace e efficiente per realizzare i cambiamenti a livello locale e globale.
Dal lavoro comunitario, con l’organizzazione settoriale, il consolidamento delle comunicazioni elettroniche con tutto il pianeta, l’articolazione di organizzazioni, istituzioni e movimenti sociali, il lavoro in rete si presenta come un’opportunità significativa per affrontare l’esclusione sociale, l’emarginazione, il disagio fisico e psichico, le difficoltà esistenziali e costruire cittadinanze globali e locali in qualunque angolo del pianeta.
Dal giovanile incontro con Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink, ai progetti futuri con il vignettista Mauro Biani. “Insieme agli amici di PeaceLink – spiega – abbiamo lanciato la piattaforma sociale.network, una alternativa alle piattaforme social orientate al profitto”.
Viviamo un misto di dolore per la tua improvvisa partenza e di gratitudine per aver camminato insieme per tanti anni godendo della tua amicizia, competenza e insaziabile amore per la vita. Siamo vicini alla tua famiglia, ai tanti che ti hanno voluto bene.
La Fondazione Vittorio Arrigoni “Vik Utopia” Onlus: “Al di là delle latitudini e delle longitudini, apparteniamo tutti alla stessa famiglia, che è la famiglia umana”
“L’educazione liberatrice da sola non produce il cambiamento sociale. Ma non potrà esserci cambiamento sociale senza un’educazione liberatrice” (Paulo Freire)