Il recente incontro dei Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – potrebbe rappresentare un passo importante sul cammino verso un mondo meno polarizzato e più plurale. Ma il nuovo scenario che si prospetta saprà mantenersi distante da quelle pericolose derive autoritarie e belliciste che hanno funestato e funestano tutt’ora la nostra epoca?
All’ultimo vertice Brics – che si è tenuto dal 22 al 24 agosto 2023 in Sudafrica – hanno partecipato 44 capi di Stato e di Governo e sei nuove nazioni sono state ammesse in questa coalizione: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Argentina, Iran, Etiopia e diversi altri Stati si sono dichiarati interessati ufficialmente a una futura adesione a questa nuova realtà costituita.
UNA FORTE MONETA UNICA PER SPODESTARE IL DOLLARO
La parola d’ordine in questo consesso è stata “dedollarizzazione”. È infatti prioritario per le potenze all’interno dei Brics, con in testa la Cina, prendersi nuove fette di mercato cercando di depotenziare il monopolio e economico e commerciale del dollaro. In parte questo già avviene tramite lo scambio tra monete nazionali dei Brics. L’intenzione futura è creare una forte nuova moneta unica di scambio, un mondo multipolare dove non esiste uno stato regolatore – insomma uno “sceriffo” –, ma accordi tra paesi liberi per scegliere la moneta di scambio.
C’è anche la volontà di ridare a materie prime e manufatti la supremazia rispetto alle attività finanziarie e ridisegnare la struttura del mondo valorizzando il lavoro. Chiaramente una nuova forza economica di tale portata rappresenta una alternativa al Fondo Monetario Internazionale, ponendosi però – almeno apparentemente – in modo migliore, più equosolidale, senza mettere davanti a tutto la propria potenza militare.
BRICS E NUCLEARE?
È però risaputo che alcuni dei paesi Brics detengono l’arma nucleare. Un nuovo ordine mondiale si sta delineando e costituendo, spetta a noi attivisti per la pace, ecopacifisti e antifascisti mobilitarci per esercitare pressioni affinché questo evento non diventi causa scatenante di ulteriori guerre e conflitti armati. Nel corso dei secoli e dei millenni si sono sempre susseguiti nella storia del genere umano alleanze e imperi che imponevano anche dittature molto cruente e forti. La follia umana ha sempre stretto coalizioni per militarizzare e muovere guerre, per potenziare monopoli e prepotenti e prevaricatrici estensioni di confini territoriali.
Tutti noi auspichiamo che un futuro scenario che vedrà come protagonisti i Brics e gli Stati Uniti con la Nato, il loro braccio armato, non sia condizionato da questa volontà suprematista. Ad esempio, l’impero egizio che aveva come caposaldo della propria economia lo sfruttamento e la schiavitù umana è stato soppiantato da una altrettanta cruenta potenza come quella dell’impero romano, che di certo non brillava in democrazia. La storia si ripeterà?
Un’alternativa al monopolio statunitense può essere un’opportunità di sviluppo di ampie aree che attualmente risultano essere molto depresse
I MOVIMENTI DELLA PACE SONO L’AGO DELLA BILANCIA?
In questa ottica, pare fondamentale una mobilitazione dal basso dei movimenti pacifisti, che non ammettono nessuna forma di totalitarismo e dittatura né di imposizione, sottomissione e sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La violenza strutturale pervade purtroppo l’umanità intera con minacce emergenti che incombono su di essa, come l’attività militare che trova il suo epilogo estremo nella deflagrazione nucleare e conflagrazione atomica. Ma anche la disuguaglianza sociale globale, dove una minoranza dei ricchi detiene il monopolio.
Altra minaccia è l’attuale guerra in Ucraina, che oltre ad aver acceso di nuovo la miccia della minaccia nucleare produce una ingente quantità di agenti inquinanti dovuti alle attività militari e belliche che impattano con l’assetto climatico e contribuiscono alla minaccia incombente dei famigerati cambiamenti e dissesti del clima planetario.
“Questo conflitto sta ulteriormente cambiando gli equilibri e gli assetti globali”, ho osservato nel mio articolo Il diritto alla pace per superare il duopolio globale. “Con gli Stati Uniti che cercano di essere sempre presenti e egemoni in Europa. Ma i segnali giunti indicano che i Brics vorrebbero contrapporsi a questo tentativo. Un’alternativa al monopolio statunitense può essere un’opportunità di sviluppo di ampie aree che attualmente risultano essere molto depresse”.
“La contrapposizione potrebbe sfociare in una drastica spinta dittatoriale e radicalizzazione dei rapporti tra Nato e Stati Uniti contro i paesi come Cina e Russia e altre nazioni. Per questo si parla costantemente in materia geopolitica internazionale della necessità non di un duopolio, ma di un mondo multipolare e libero dalle armi e dagli ordigni di distruzione di massa nucleari”.
LA VIOLENZA STRUTTURALE ISPIRANDOCI AL PENSIERO DI GALTUNG
La violenza è inoltre implacabile sui più deboli del nostro pianeta, dalle donne sfruttate e violentate, ai lavoratori, con le cosiddette morti bianche, che in realtà sono autentici omicidi ai danni degli operai che cercano di vivere con la loro fatica, con il loro talento e con il loro misero reddito.
Quindi i Brics per molta parte della sinistra potrebbero rappresentare un’alternativa mondiale alla dittatura globale ed economica e nucleare degli Stati Uniti e della Nato. Ma tutti noi non possiamo nascondere il nostro comune scetticismo e timore per quanto si sta determinando e delineando nel nuovo assetto globale, dove altri potentati vogliono prendere il sopravvento sull’egemonia del controllo planetario.
“Le Rivelazioni”, del caro amico Oliviero Sorbini, non è un romanzo “ortodosso”. In realtà si tratta di tre racconti diversi di cui uno solamente, il principale, quello che svolge un ruolo da filo conduttore, ha un suo finale. Gli altri due, uno sotto forma di narrativa, l’altro scritto come una sceneggiatura cinematografica, sono dichiaratamente incompleti. E non è certo un caso perché l’autore più volte fa riferimento al valore di ciò che non necessariamente ha una sua conclusione: “Raccontare l’amore di una persona per le piante, non ha un finale. La persona morirà senz’altro e poi moriranno le piante, magari secoli dopo. Ma quell’amore è esistito e ha lasciato la sua impronta nel mondo. Se lo racconti non hai bisogno di descrivere un finale.”
Nel romanzo di Oliviero Sorbini si assiste ad uno scambio di testimone fra i personaggi. E la stessa cosa l’autore intende fare con il lettore. È un gioco, serio, ma pur sempre un gioco, che porta il lettore a rendersi conto che la sua realtà quotidiana può essere interpretata diversamente. L’umanità ha bisogno di aiuto e forse molti di noi sono Protouomini, ovvero persone con origini extraterrestri, in grado di dare il proprio contributo. Personalmente, e so di non essere la sola, leggendo “Le Rivelazioni”, mi sono riconosciuta come una “protodonna”. Credo che questo fosse il vero obiettivo dell’autore: condurre il lettore ad immedesimarsi nel ruolo di “diverso”, ovvero di potenziale “protouomo”.
L’umanità ha bisogno di aiuto, questo ormai lo sappiamo tutti, per uscire dalla crisi climatica e non autodistruggersi con gli ordigni nucleari. L’autore sembra dire che la situazione è giunta ad un punto tale di pericolosità che soltanto con l’ausilio di entità extra terrestri potremo trovare la via della salvezza.
“Voglio farti una domanda …. Noi siamo mandati da Dio?”
“No, noi non siamo gli inviati di Dio, creatore dell’universo. Per molti aspetti, potremmo essere considerati degli Angeli. Ma non conosciamo Dio creatore. Però sappiamo molto degli Dei degli uomini…”.
Queste le prime righe del Prologo, che assumono un pieno significato solo a lettura ultimata. Il narratore ci conduce pagina per pagina a scoprire e intendere la trama, apparentemente spezzata dalla divisione in cinque parti: prologo, parte prima, parte seconda, parte terza e parte ultima.
Un gioco, ho scritto, perché il lettore viene invitato a comporre un puzzle o un mosaico che volutamente l’autore rende complicato, anche con l’uso martellante dello stesso nome: Philip, Felipe, Filippo. Certo, e questa può essere intesa anche come una critica, non è un romanzo per tutti. Per gustarlo e comprenderlo credo sia necessario amare la lettura.
Il narratore ci spiega di aver conosciuto anni prima uno scrittore americano che gli ha lasciato due manoscritti: l’inizio di un romanzo dal titolo “Quando ero Filippo” e la prima stesura di una sceneggiatura per un film, Revelations. La prima parte è costituita da un romanzo non completato e parla di un uomo di circa cinquant’anni che viene avvicinato da un personaggio misterioso che lo porterà alla scelta di abbandonare la sua vita a Roma per trasferirsi a Buenos Aires. Perché? La risposta è nel titolo: Filippo ha ricevuto la “rivelazione” e dunque è pronto a mettere a disposizione della causa la propria persona ed il proprio talento artistico. E qui sta il primo indizio importante della tesi del romanzo. Le arti soprattutto e prima di ogni altra cosa hanno scandito lo sviluppo dell’umanità. I Protouomini agiscono privilegiando principalmente l’uso delle arti, dalla musica alla pittura. Infatti, a Buenos Aires, Filippo, ora diventato Felipe, si trova a vivere in una piccola comunità artistica composta da una pittrice ed un musicista. Tutti loro hanno subito dei dolori dai quali non si sono ripresi. Sarà la causa, la salvezza dell’umanità ed il prevalere del bene sul male, a dar loro una nuova ragione per vivere con entusiasmo e con un senso e un significato pregnanti.
Nella seconda parte il protagonista è uno scrittore americano, Philip, che riceve la “rivelazione”. E qui ritroviamo però alcuni dei personaggi del romanzo, la pittrice e lo scultore. La spiegazione di questa apparente casualità è che si tratta di due manoscritti provenienti dalla stessa mano, quella dello scrittore americano che abbiamo incontrato nel prologo e dunque si tratta di due bozze diverse sostanzialmente della stessa storia. Dunque, una delle tesi dell’autore, è che attraverso le arti, l’altruismo e le innovazioni, anche tecnologiche possibili, e mai attraverso l’uso delle armi, che l’umanità potrà trovare uno sbocco diverso da quello della sua stessa estinzione. Emerge lo spirito pacifista ed ambientalista di Sorbini, non a caso soggetto attivo nella comunicazione ambientale da decenni, anche nella sua vita professionale. È questo aspetto che mi ha attratta fin dalla prima lettura del libro e per questo ho voluto scriverne la prefazione. Sono convinta infatti che il movimento pacifista e il movimento ambientalista necessitino di nuove modalità e forme di comunicazione. E l’autore sembra invitare ognuno dei lettori a divenire soggetto attivo nell’uso della fantasia, l’unica “arma” legittima perché il bene comune trionfi sull’egoismo devastante dei potenti del nostro tempo.
Quando finirà la guerra in Ucraina? Cosa pensano gli italiani del conflitto? Qual è l’approccio migliore, quello militare o quello diplomatico? Muovendosi trasversalmente fra vari temi e attingendo dalla sua lunga esperienza di inviato di guerra, Nico Piro riflette sulla situazione attuale in Ucraina e sulle possibili vie d’uscita da un conflitto la cui fine sembra sempre più lontana.
“Maledetti pacifisti” è il titolo dell’ultimo libro del giornalista e reporter di guerra Nico Piro. Un titolo provocatorio che vuole sottolineare come un’informazione equa, obiettiva e libera sulla guerra sia uno strumento di pace fondamentale per contrastare una deriva bellicista che oggi si sta espandendo non solo sul piano politico, ma anche su quello culturale.
Il suo Maledetti pacifisti, vincitore del premio Ilaria Alpi, è un importante libro di denuncia, dal titolo provocatorio. Ma è davvero ancora possibile fare giornalismo al servizio del lettore e non del pensiero unico bellicista? Nico Piro è un inviato di guerra con una lunga esperienza e proprio con lui abbiamo parlato di conflitti, di pace e di comunicazione in merito a questi due temi centrali, soprattutto nell’epoca attuale.
1- Nico Piro, giornalista Rai e inviato di guerra, tu che sei stato insignito anche del premio Ilaria Alpi, e hai scritto l’importante libro di denuncia, dal titolo provocatorio, “Maledetti pacifisti”, quanto ritieni ancora possibile fare giornalismo al servizio del lettore e delle persone e non al servizio del pensiero unico bellicista? Per l’alto ideale della Pace.
La Pace: vi è sempre una possibilità. Perché dipende da noi e oggi dipende da ognuno di noi. Diceva Teresa Sarti Strada che ogni persona deve fare il suo pezzettino e però poi questi pezzettini vanno insieme e formano un mosaico che può cambiare il mondo.
Credo sinceramente che ciascuno di noi è chiamato a fare la differenza e occorre avere la determinazione e la forza di fare la differenza. Poi ovviamente non è facile, ma non è stato mai niente facile. Credo che dobbiamo per esempio con grande forza fare informazione seria, equa, vera, che deve riprendere la battaglia di Gino Strada per l’abolizione della guerra e i tempi sono più che maturi e qualcuno dirà “Ma è impossibile abolire la guerra”.
Ma per la verità, se non ricordo male, sembrava impossibile anche abolire l’apartheid fino agli anni ottanta e poi ci siamo riusciti. Sembrava pure impossibile abolire il segregazionismo razziale in America negli anni sessanta. Poi una donna a un certo punto si è seduta sul posto sbagliato in autobus e ha cambiato tutto. Quindi dobbiamo crederci. Ovviamente crederci significa anche essere pronti a pagare dei prezzi, ma credo che tutto sommato ce la possiamo fare.
2-Che pensi del silenzio assoluto intorno alla conferenza di Vienna sul TPAN, il trattato Onu di proibizione delle armi nucleari che è valso alla rete internazionale Ican il Premio Nobel per la pace nel 2017 per il disarmo nucleare universale? Una vera svolta per il mondo pacifista. Un Premio Nobel per la pace collettivo di cui i testimoni siamo tutti noi nonviolenti e pacifisti affiliati alla rete Ican. E’ una rivoluzione e una speranza per l’umanità intera. E che pensi del fatto che questo trattato ONU, il TPAN, non venga ratificato dai paesi Nato, compreso il nostro? L’egida Nato incombe su molti paesi come il nostro e impone in tutto il mondo guerre, distruzioni, massacri, terrorismo e genocidi.
Purtroppo siamo in una fase in cui i grandi progressi degli anni novanta sul controllo delle armi e delle armi nucleari sono in fase di forte risacca. Stiamo tornando indietro. Quindi credo che invece di ragionare sullo specifico episodio, sia il caso di pensare a cosa sta accadendo a livello complessivo. Purtroppo quelli che un tempo erano un disvalore, ora sono tornati ad essere un valore e cioè le armi e gli armamenti.
Viviamo una corsa globale verso il commercio e il trasporto di armi. Pensiamo al caso del Parlamento italiano. In Italia non siamo riusciti a metterci d’accordo come forza politica. Anzi non sono riusciti a mettersi d’accordo su, per esempio, come fermare la strage quotidiana di morti sul lavoro. Eppure è un’emergenza di cui tutti conosciamo l’evidenza. Tutti i giorni vi è più di un morto sui giornali. Un morto che è uscito di casa non per andare a fare la guerra, ma per andare a lavorare. Eppure in poche ore il Parlamento italiano è riuscito a mettersi d’accordo sull’innalzamento delle spese militari al 2 per cento del PIL, senza per giunta porsi il problema di quanti ospedali, quanti ambulatori, quante scuole, quanti asili chiuderemo per alzare le spese in Italia al 2 per cento.
Quindi credo che il tema oggi sia specificamente quello della abolizione della corsa al riarmo e questa corsa agli armamenti va fermata perché le armi assolutamente fanno un immane danno. Perché di fatto alimentano il ciclo della guerra, ma non solo: sottraggono soldi per utilizzi civili e questo è davvero qualcosa di molto, molto preoccupante.
3-Il pensiero unico bellicista è il risultato dell’enorme potere della industria degli armamenti per cui hanno ragione coloro che affermano che le guerre esistono perché le armi una volta prodotte vanno vendute con adeguata strategia di marketing?
No. Credo che ci sia un problema generale. L’industria delle armi fa il suo lavoro. Semplice. Il problema vero è invece il fatto che ormai si è imposta nello spazio mediatico una cultura della guerra che è la guerra normalizzata. E credo che il vero tema sia questo. Cioè la pace non ha sponsor, la guerra sì. Anche perché la guerra produce profitti monetari e non monetari per una serie di centri di potere. Esempio la politica. Boris Johnson è uno che ha usato il conflitto armato in Ucraina per riscattarsi, riuscendoci per qualche mese poi alla fine ha capitolato. Ha dovuto capitolare per riscattarsi dai disastri combinati dal suo governo in pandemia per il covid.
E quindi il problema vero è che la pace sponsor non ne ha. La pace non ha voce. La pace non ha chi investe sulla pace e questo è, secondo me, colpa dei governi per cui quando comincia una guerra, quando si prepara una guerra, si levano solo e più forte delle altre le voci di chi sostiene il conflitto bellico. Diciamo che nel caso dell’invasione russa dell’Ucraina e il seguente scontro guerresco, si è creata una situazione senza precedenti. Vale a dire è la prima volta che abbiamo memoria di un conflitto e a maggior ragione perché il pensiero unico bellicista non vuole solo avere ragione. Il pensiero unico bellicista lancia uno stigma su tutti quelli che la pensano diversamente. Il pensiero unico bellicista corrode la democrazia. Quindi il tema che ci dobbiamo porre è se oggi non possiamo parlare di pace senza essere trattati da nemici della Patria al soldo del nemico. Domani di cosa non potremo parlare?
4-Ritieni che dopo l’occasione mancata in Italia siano maturi i tempi per un Partito della Pace che si presenti in tutti gli Stati membri alle prossime elezioni europee? E’ necessario che la pace possa essere rappresentata in politica.
Ma io non credo onestamente alla politica, solo politica, intesa come partitica. Sono un dilettante. Quindi non mi applico. Credo che avere un partito della Pace sia limitante. Perché poi alla fine che cos’è la pace? la pace è progresso. Un emblema della pace: Aldo Capitini. Nei giorni scorsi Sono stato alla biblioteca di San Matteo degli Armeni a Perugia dove ho presentato il mio libro “Maledetti pacifisti”. In quella biblioteca sono conservati tutti i suoi documenti, i carteggi e le lettere e mi ha colpito vedere e capire in realtà questa figura. Quell’asceta della pace: Aldo Capitini. E’ una figura che ha fatto una scelta per la Pace. In realtà lui metteva tutto insieme: la pace è progresso. Perché la pace è creativa a vari livelli per tutti.
L’Italia, non dimentichiamolo mai, perché non lo dicono, sta vivendo il più lungo periodo di pace della sua storia che coincide col massimo periodo di benessere del nostro paese. La pace creativa dà dividendi per tutti. La guerra profitti per pochi. Il problema è che la pace li crea a lungo termine. Evidentemente della pace invece ci dobbiamo prendere cura. Perché per questo tipo di occupazione se letteralmente la pace è limitata – perché noi abbiamo bisogno anche di pace sociale – è necessario che questa categoria di pace si diffonda in tutti i settori. Non vi è solo la pace, ma anche la pace dei morti del lavoro, vi è la giustizia, cioè il progresso. Ci sono i diritti. Credo che vada tutto ottenuto insieme. Quindi credo che sia limitante condurre una attiva campagna sulla pace che non tenga conto del progresso. Esattamente come la Resistenza italiana che è stato un fenomeno molto complesso che poi in realtà non voleva difendere solo la nazione, ma voleva difendere il cambiamento. Voleva un paese migliore e poi anche la difesa dell’ integrità territoriale, ma non era solo questo. Era un fenomeno complesso. (Cfr. Resistenza e Nonviolenza creativa, Mimesis Edizioni 2022)
5 -Puoi azzardare una previsione di come finirà tra Russia e Ucraina e quanto durerà la simpatia e l’accoglienza in Europa in favore dei profughi ucraini? Anche se la guerra è sempre fondata sulla violenza.
Spero che la Polonia e i vari paesi imparino da questa vicenda: la gente che fugge dalle guerre va accolta. Non solo se l’altro da noi ha la nostra stessa religione e il nostro stesso colore di pelle. Va accolta sempre. Quindi, me lo auguro. Me lo auguro profondamente. Mi auguro la solidarietà verso i profughi ucraini esattamente come non cessi verso i profughi delle altre guerre. Il problema è che per non cessare deve cominciare. E Crotone ci insegna che non è cominciato o meglio la solidarietà è episodica. Poi un altro tema. Il cosa accade quando proviamo a fare delle previsioni sulla guerra? E’ sempre molto difficile perché la guerra alla fine è un gioco di adattamento alla violenza.
Le guerre sono cose complesse. Ma si reggono su un principio molto semplice: l’adattamento. Io colpisco te. Tu colpisci me. Io mi adatto al tuo colpo affinché non sia un colpo letale e tu ti adatti al mio affinché non sia un colpo letale. Per cui man mano che questo equilibrio di adattamento resta in piedi le guerre durano tra alti e bassi, ma durano. Le guerre lampo esistono solamente nelle speranze dei generali e dei dittatori, ma in realtà le guerre, basta considerare l’Afghanistan, che è l’archetipo dei conflitti contemporanei, cominciano, ma non finiscono. Esistono persone al mondo che hanno il potere di scatenare conflitti micidiali, ma non vi è nessuno su questo pianeta capace di fermarli. Perché non dipende da noi.
Perché quando è scoperto il vaso di Pandora della guerra, i demoni che ne escono fuori hanno una loro autonomia. Quindi non me la sento di fare previsioni. Dico però una cosa. Di stare attenti perché quando si dice “l’unica strada è la guerra” di fatto si prende una pallina e la si butta nella roulette. Ma nella roulette ci sono due colori. Il rosso e il nero. Lo zero è statisticamente trascurabile. Il rosso e il nero: e non è detto che la pallina si fermi dal lato che noi preferiamo. Quindi per questo scegliere la guerra cercando di immaginare una punizione per il cattivo è un modo per affrontare le cose. Tra l’altro il caso afghano ci insegna. La Prima Guerra Mondiale ci insegna. Ma questo conflitto non ha una soluzione militare. Ha solo una soluzione diplomatica. E’ chiaro nel momento in cui prendiamo atto di questo. Prima si arriva a una soluzione diplomatica, prima le persone smettono di morire. Il che mi sembra un tema di cui nessuno si sta facendo carico. Si continua a parlare di questo Risiko, della guerra, senza ricordarci che in mezzo esiste gente che muore.
6-Alla luce dei risultati elettorali, ritieni ancora che la maggioranza degli italiani siano per la pace o vogliono essere solo lasciati in pace?
Mi sembra abbastanza relativo. Credo che gli italiani stiano sentendo dal primo momento il peso della guerra perché i sondaggi sono concordi. Quando sono arrivati gli aumenti del gas, la fine del turismo Russo, la fine delle importazioni, danni per l’economia, inflazione, per cui anche un po’, secondo me, è banale dire che gli italiani non vogliono la guerra perché vogliono farsi i fatti loro. Mi sembra che sia in atto anche un processo di criminalizzazione dei poveri. Cioè i poveri vengono accusati di essere contro la guerra perché non vogliono pagare le bollette. Però una famiglia di basso reddito deve pagare le spese familiari e il reddito è già indirizzato verso l’ineliminabile, ossia l’energia, quindi luce e gas e la spesa. Quindi quello che c’è da mangiare. Poi l’affitto. Ma a che cosa deve rinunciare la gente? queste persone a cosa devono rinunciare? al cinema? all’auto? e probabilmente non la usano più. Alle vacanze? mai fatte. Quindi diciamo questo: a me ricorda un po’ la battuta che gira ancora in Russia su Stalin quando gli dicevano “Compagno segretario il popolo è contrario” e lui rispondeva “Cambiate il popolo”. Cioè se c’è un dato di fatto che in Italia la gente è contro la guerra, ma perché dobbiamo dire tutti i giorni che la gente è stupida?
7-Hai mai conosciuto obiettori di coscienza russi?
No. Anche perché in realtà è un fenomeno che è nato dopo. Soprattutto dopo la costrizione al servizio militare straordinaria di settembre. Gli obiettori di coscienza, i cosiddetti renitenti alle armi, alla leva ci sono anche in Ucraina. Cioè di recente vi è stata un’operazione dei servizi segreti ucraini contro i vertici della Compagnia Portuale di Odessa perché accusati di fabbricare finti documenti di imbarco per consentire ai giovani di non partecipare alla guerra.
Non è giusto verso l’Ucraina raccontarla come la stiamo raccontando cioè come un paese in armi. Ucraina significa terra di confine, quindi Terra di Mezzo e quindi è un paese dove è stata scritta la canzone Sole mio: non è stata composta a Napoli. E’ stata scritta a Odessa. E’ un paese di una complessità notevole. Con un versante filo russo più vicino alla Russia dove sono arrivati negli anni ’30 migliaia e migliaia di russi portati da Stalin per le miniere di carbone. Poi una parte che si sente più polacca. Un paese complesso come l’Italia. E poi noi, l’Italia è un paese complesso per eccellenza. Ma è un paese complesso e quindi come tale va trattato. Non credo sia giusto verso l’Ucraina. Una narrazione funzionale al pensiero bellicista, ma non è giusto definirla come un paese che non si vuole arrendere, dove il popolo vuole combattere fino alla fine, ma credo che il popolo voglia pace e pane e avere magari anche corrente elettrica e gas eccetera.
8 – Cosa puoi dire a due “Maledetti pacifisti” che tutti i giorni si scontrano con altri Maledetti pacifisti per riuscire a trovare una unione di intenti per creare delle azioni serie e concrete al fine di apportare un cambiamento? Quindi l’intenzione del tuo lavoro è una provocazione.
Il fatto di affermare: “Ma questi maledetti pacifisti”. Noi pacifisti veniamo sempre messi un po’ alla berlina. “Il solito pacifista…” Quando porti delle nuove istanze dai sempre fastidio. Però già è importante riuscire noi stessi a metterci insieme e a portare azioni un po’ più concrete e un po’ più con voce. Un po’ più pacifisti. Siamo frastagliati. Siamo divisi. Non vi è più omogeneità perché si fanno avanti i poteri forti spacciati da progressisti: la sinistra con l’elmetto e le destre.
La destra è un universo. Insomma un universo ampiamente frammentato. Pensiamo a tutti i gruppi che stanno più a destra. Le sigle. Pensiamo alle divisioni che oggi ci sono al governo. Eppure riescono sempre a trovare l’unità tra loro. Per noi pacifisti, il tema è superare le differenze e stare insieme per il grande obiettivo. Il grande obiettivo non è solo la pace in Europa e il disarmo. Il grande obiettivo è salvare la democrazia italiana. Perché il pensiero unico bellicista corrode la democrazia. Oggi è questo il problema e se non lo capiamo ci mettiamo in una posizione di enorme difficoltà. Per il futuro. Perché se il popolo della pace con tutte le sue diversità oggi non riesce a reclamare lo spazio non lo reclamerà a lungo.
Quindi credo che noi dobbiamo assolutamente fare lo sforzo – ognuno di noi – di provare a radunare questo mondo variegato del pacifismo. Insomma dall’estate, cioè da quando sono tornato stabilmente in Italia sto girando e sto andando praticamente ovunque. Più di 40 date e in realtà per parlare di pace e di questi argomenti. È un modo per stare a contatto con la vera Italia. La cosa brutta e triste è quando alla fine poi, come mi dovrebbe in realtà lusingare, ma non è così, le persone alla fine mi dicono che si sono sentiti meno sole perché vuol dire che allora le cose stanno veramente messe male. Perché se qualcuno tiene una conversazione e dove non è qualcuno, ma sono tanti e si ripetono e ti vengono a dire grazie. Mi dicono così. “Questa sera ci siamo sentiti meno soli” e vuol dire che siamo in una situazione gravissima. In questo paese stiamo marciando negli anni ’20 degli anni bui del fascismo e questo ci deve far paura. Per questo dobbiamo porci e opporci con forza, perché se non ci opponiamo con forza a questo, tutto il resto diventa assolutamente relativo. Perché poi torniamo alle gabbie salariali. Ma poi dopo le gabbie salariali in concreto cosa troviamo? La giornata di 8 ore lavorative? I contratti nazionali di lavoro? La leva obbligatoria? Dove stiamo andando? Questo è il tema che dovrebbe preoccupare tutti. Piuttosto che esibirsi a chi è più bellicista.
(Cfr. Laura Tussi, con scritti di Fabrizio Cracolici, Giorgio Cremaschi e Paolo Ferrero, Resistenza e Nonviolenza creativa, Mimesis Edizioni 2022)
In collaborazione con Fabrizio Cracolici, attivista di Pace, scrittore e membro direttivo ANPI Monza e Brianza e in collaborazione con il sito Italia Che Cambia
Le esportazioni militari aumentano il proprio quantitativo in maniera esponenziale. La spesa bellica e i sistemi d’arma sono esportati nei paesi che oltraggiano i diritti del genere umano.
Le banche finanziano questo sistema guerrafondaio e la trasparenza del commercio e dell’export degli armamenti è ai minimi storici. Quando ha preso avvio la campagna di pressione sulle banche armate e in cosa consiste?
Sono arrivato a una sola conclusione ormai.
Non ho mai visto un governo italiano così prigioniero del complesso militare industriale di questo Paese. Spaventoso. Ma davvero dentro lo stesso governo questo prostrarsi alla Leonardo è impressionante. Veramente. Mai visto. Questo di solito era riferito agli Stati Uniti. In Italia siamo arrivati alla stessa identica situazione.
E questo è gravissimo. Proprio l’altro giorno si è tenuto un incontro fatto a Roma dalla Aiad che è l’associazione del comparto Militare italiano. Tra l’altro era presente Crosetto. Ha detto che lui vuole cambiare e modificare la legge 185 perché sta bloccando troppo la vendita di armi.
Inoltre è molto preoccupato per le banche etiche perché diventa difficile adesso trovare soldi dalle banche che si sentono accusate di non essere etiche. Per cui lui ha deciso di fondare una grande nuova banca che investa soltanto nel militare. Quindi siamo davvero messi malissimo.
Penso che diventi fondamentale in questo momento proprio l’invito a tutti a evitare e soprattutto boicottare le banche armate. E veramente siamo arrivati a un punto di parossismo totale.
Con la guerra in Ucraina verranno prodotte molte armi. La guerra in Ucraina andrà avanti perché è importante produrre armamenti e poi smaltirli subito. E si procede così. Sempre.
Soprattutto quello che mi preoccupa di più non è tanto la società civile, che purtroppo non è molto cosciente, ma mi preoccupa il problema delle comunità cristiane. Il livello dovrebbe essere molto chiaro: non possono lasciare i loro soldi in mano alle banche che investono nella produzione di armi. Quel povero Gesù di Nazareth era il profeta della nonviolenza. Il grande teologo Enrico Chiavacci, al Concilio Vaticano Secondo, ha detto una cosa molto chiara. Un cristiano è obbligato a sapere dove tieni i propri soldi e in quali banche. E come quella banca usa quei soldi. E’ un dovere questo fondamentale per ognuno di noi. Quello che mi sconcerta di più è questo silenzio da parte delle comunità cristiane. E anche da parte delle parrocchie, delle diocesi, dei vescovi. Non riesco a capirlo. Ormai noi cristiani siamo talmente conformati al sistema economico, finanziario, militarizzato e ne facciamo parte. Accettiamo come una cosa normale che i nostri soldi vengano investiti in tutta questa infernale produzione. Penso che sia importante un appello alle comunità. A tutti i cittadini perché davvero devono incominciare veramente a fare una scelta sostanziale.
Non vogliamo la guerra. Siamo per la pace.
Ma se poi i soldi li depositiamo in una banca che investe in armi e ordigni militari, il fatto non è coerente. Davvero è necessario aiutare i cittadini a capirlo questo. E non è facile. Perché chiaramente sono pochi coloro che portano avanti questo discorso, ma è fondamentale. Altrimenti andremo avanti a spendere davvero per continuare a costruire armi a non finire. L’anno scorso abbiamo speso in Italia e abbiamo investito per 32 miliardi di euro in armi. Ma è pazzia collettiva. Sono tutti soldi che poi vengono tolti alla scuola, alla sanità pubblica e avanti così. La campagna di boicottaggio delle banche armate dovrebbe davvero molto motivare la gente a capire che i propri soldi non possono essere usati per costruire armamenti che ci stanno conducendo inesorabilmente a questo disastro planetario. Siamo sul crinale del baratro dell’esplosione nucleare.
E quindi dell’inverno nucleare.
E dall’altra parte, ricordiamoci, pesano altrettanto sull’ecosistema queste guerre che provocano un altissimo tasso di inquinamento e qui siamo davanti ad una estate molto calda.
Vendere armi nelle zone calde, nelle aree di conflitto armato è vietato dalla legge 185/1990 come anche dalla nostra Costituzione.
L’export di armamenti è veicolato verso i paesi impegnati nella guerra contro lo Yemen, verso i paesi come l’Egitto di al Sisi e la Turchia di Erdogan.
Puoi argomentare queste considerazioni?
Il problema drammatico. Il Ministro della Difesa Crosetto è molto preoccupato della 185 perché blocca troppo la vendita d’armi e lui vorrebbe al contrario accelerarla. E’ una legge nata su una lunga battaglia di cui ho fatto parte all’inizio con la rivista Nigrizia. Poi mi hanno “defenestrato” e sono andato in Africa. Ma quel movimento, che includeva tantissime organizzazioni, ha portato poi alla legge 185 che è l’unica legge, l’unica questa legge 185, è unica anche in Europa, nessun’ altra nazione in Europa ha una legge del genere. E’ un piccolo strumento, per prevenire un sacco di disastri, che abbiamo tra le mani, per cui è fondamentale allora incominciare a difendere questa legge davvero ostinatamente, ma per difenderla soprattutto è necessario anche pagare di persona.
I caricatori del porto di Genova i Calp, ma anche di altri porti, si sono rifiutati per esempio di caricare le armi sulle navi destinate all’ Arabia Saudita per la guerra contro lo Yemen. I portuali stanno pagando di persona. Sono incriminati. Rischiano di essere processati. E’ necessario correre il rischio di essere processati. Di avere il coraggio davvero di arrivare a questo. Diventa ormai fondamentale quello che è la disobbedienza civile.
Proprio giorni fa ho partecipato a un incontro sul caporalato in Campania e il vescovo emerito di Caserta Monsignor Nogaro ha detto proprio queste parole che è arrivato il tempo di gridare che è necessaria oggi la disobbedienza civile. Siamo arrivati a questo punto. Per cui dobbiamo davvero disobbedire.
Questo però vuol dire pagando nella propria vita e non è facile. So che questo non è facile. Ma siamo davvero messi alle strette oggi. Il cittadino che capisce quanto è folle un po’ tutto questo sistema drammatico deve davvero avere il coraggio. Vale questo per le armi.
L’idea di base della campagna di pressione sulle banche armate è valida perché tende a bloccare questo sistema di commercio di armamenti. In quali modalità?
Le modalità di questa campagna di boicottaggio delle banche armate è molto semplice. E’ necessario comprendere il problema. Si deve reagire. E’ necessario semplicemente ritirare i propri soldi dalla banca che investe in armi e vedere di trovare una banca etica, ossia un’altra banca che non investe in armi. E’ fondamentale questa azione. Tutto questo non è facile perché è chiaro che gli interessi anche spesso sono tanti perché certe banche, come le tre banche principali in Italia Unicredit, Intesa Sanpaolo e Deutsche Bank danno alti dividendi che sono molto più vantaggiosi che in altre banche dove non investono in armi e quindi ognuno anche qui ci perde a livello personale. Alla fine però a questo punto dobbiamo vedere di cominciare a capire che non si può continuare così e quindi bisogna davvero muoversi in questo senso.
Per fare questo per arrivare a che sia efficace la campagna, penso che ci siano due fattori fondamentali. Finora abbiamo lanciato questa campagna con Pax Christi e le tre riviste Nigrizia, Missione Oggi, Mosaico di pace, ma non basta. Stiamo premendo per esempio a livello di chiesa. La chiesa italiana faccia un passo in avanti a questo livello. Non è possibile questo continuo investimento in armi e spero davvero che si riesca a arrivare a questo boicottaggio delle banche armate.
Ma poi ci vorrebbe anche per la società civile la capacità da parte almeno di alcuni giornalisti di rilanciare con forza tutta questa azione, perché molta gente non sa nulla di queste cose. Sono nella totale ignoranza, per cui questo è fondamentale. Questa campagna davvero si deve rilanciare con grande forza. Solo così mettiamo in crisi il sistema. L’altra cosa che chiaramente è ancora più dura sarebbe una disobbedienza civile di tanti che lavorano in fabbriche d’armi che si rifiutino di continuare a fare il proprio lavoro. Purtroppo il problema è che questo sistema in cui viviamo è un sistema che non ha nessun valore e ideale. Ho scritto recentemente in occasione del funerale di Berlusconi che l’amoralità, cioè non moralità di Berlusconi è diventata l’etica del popolo italiano.
Purtroppo questo è il problema.
Il problema fondamentale è che non ci sono più valori e non più ideali e questo richiede soprattutto da parte della rete della Chiesa che, nelle esperienze religiose, occorre tornare davvero a formare una coscienza di valori perché i cittadini mi sembra che abbiano perso la percezione di quello che sta avvenendo e bisogna arrivare alla coscienza di principi che è fondamentale.
Sfiora di molto i 9 miliardi e mezzo di euro il valore delle operazioni segnalate dalle banche italiane relative al commercio di armi.
Le riviste missionarie Nigrizia, Mosaico di pace e Missione oggi come denunciano il fatto che gli istituti di credito si sono messi al servizio delle aziende belliche?
In generale le tre riviste sono molto chiare sulla denuncia di tutto questo. E’ incredibile. Nove miliardi di utili. Praticamente di una gravità estrema. Utili fatti sulle armi. Fatti sulla pelle e sul massacro di tanta gente. Alla fine è fondamentale dire che le tre riviste continuano in questa loro denuncia però non è sufficiente. Sono tre voci e tra le riviste missionarie che non hanno gran peso alla fine nella società italiana. Ci vorrebbe davvero che qualche televisione seria o qualche grosso giornale iniziasse una campagna fondamentale per questo livello di denuncia. Ma chiaramente il problema è che sono tutti parte del sistema e basta vedere un giornale e chi lo paga, da dove ricevono fondi economici e quindi diventa veramente difficile. Penso che anche questa è una vera e propria missione. Sono un missionario e a volte sembra sempre di parlare al deserto. Ma è importante continuare a declamare la nostra posizione. Invitare tutti davvero a incominciare a riflettere su come usano e come i propri soldi vengono usati. Vale per le banche armate; vale anche per chi investe in fossili: le aziende e anche le banche. E’ la stessa cosa; perché sono le due realtà che ci stanno portando alla possibilità che la presenza umana non ci potrà più essere in futuro per l’esplosione nucleare o per l’estate incandescente. Per cui diventa un problema anche l’investimento sui fossili. E’ difficilissimo fare passare queste scelte. E’ una lotta costante, ma dobbiamo continuare senza stancarci.
Anche il PNRR sarà sempre più proiettato all’investimento e produzione di armi?
Aumenta la produzione di armi e si tolgono i fondi dalle scuole, dalla sanità, dalla cultura, dall’istruzione.
Il PNRR cioè il piano nazionale di ripresa e resilienza si utilizza per le armi e chiaramente toglie anche la spina alla sanità, ma anche a Bruxelles adesso non so cosa abbiano deciso effettivamente. Perché sembra che la proposta di uno dei programmi è che il PNRR venga utilizzato per le armi e non so come il Parlamento Europeo abbia votato con discussioni che stanno andando avanti, ma è chiaramente qualcosa di estremamente grave questo. Il PNRR dovrebbe servire alla società, alla società civile e soprattutto servire a portare avanti la scuola. Sto vedendo a Napoli il disastro scolastico che abbiamo, ma altrettanto, non soltanto a livello di scuola. Ma la sanità. E’ pauroso il crollo della sanità. Così i fondi vanno a finire in armi e non ci sono più per tutto il resto. Questa è una cosa assolutamente grave.
Nipote di un ferroviere che ha pagato a caro prezzo la coerenza con i suoi ideali, Fabrizio Cracolici è attivista, ricercatore storico e video maker. Uno degli obiettivi del suo lavoro è costruire un ponte fra passato e futuro, fra i giovani che molti anni fa hanno combattuto per la libertà e quelli di oggi, che si trovano ad affrontare nemici per certi versi ancor più insidiosi. Gli strumenti per batterli? Informazione e consapevolezza.
Realizzare questa intervista è stato un po’ complicato per certi versi. Il motivo? «Queste domande mi sono state rivolte da Laura Tussi, la mia compagna di vita e anche di lotta. Da diversi anni e con piena consapevolezza dell’importanza di fare il mio pezzo di strada, mi occupo di memoria storica e cerco di praticare una forma di attivismo comunicativo e sociale», spiega Fabrizio Cracolici, ricercatore e attivista per la pace, i cambiamenti climatici e i diritti umani. «Spiegare oggi ai giovani la storia – specifica –, nelle sue discrasie e profonde ingiustizie, può rappresentare un’opportunità per trasmettere anticorpi contro le infinite ingiustizie e violenze purtroppo sempre più presenti nella società odierna».
Da dove e quando nasce la passione per questi temi?
Diverse esperienze di vita mi hanno portato a occuparmi di questi temi. In primis la storia tormentata della mia famiglia. Quando ero piccolo amavo ascoltare le storie incredibili vissute durante il tristissimo periodo nazifascista. Nonno Ignazio era un ferroviere che per non aver messo la firma al fascio è stato confinato per 14 anni a Prestranek, in ex Jugoslavia. Mi diceva: “Con una tessera avrei potuto stare tranquillo e invece ho praticato una scelta pienamente consapevole che ho pagato pesantemente. Perché l’ho fatto? Perché come Cristiano trovavo l’agire fascista agli antipodi del Vangelo”.
Nel mio percorso di crescita e di consapevolezza ho avuto la fortuna di incontrare persone speciali che hanno risvegliato in me la capacità dì indignarmi. Ricordo il mio incontro con il comandante partigiano Giovanni Pesce. La fortuna di condividere molte esperienze con il caro amico Don Andrea Gallo e oggi una fitta collaborazione e stima con il caro amico Alex Zanotelli. In questo preciso momento con gioia immensa vedo negli occhi di Laura la grande forza che lei, con le sue grandi capacità umane, è stata in grado di trasmettermi.
Da dove nasce la tua passione per i video sociali, che sono parte integrante della tua attività di divulgazione?
Penso che realizzare video sociali possa essere un buon mezzo per comunicare attivamente messaggi e pratiche. Le giovani generazioni comunicano così. E noi abbiamo il dovere di stare quanto più possibile vicini a loro, con i loro mezzi e le loro capacità ricettive e percettive. Trasmettere qualcosa alle future generazioni è e deve essere una priorità assoluta.
Cosa ti senti di dire a chi vuole avvicinarsi all’attività di video maker sociale?
Una cosa sola mi sento di dire e cioè che è necessario essere estremamente concreti oltre che creativi e comunicativi. Occorre spalancare gli occhi e la mente al mondo che ci circonda percependo le aspettative nascoste di chi sa che esistono enormi problemi, ma non ne è pienamente consapevole. I mezzi di comunicazione del potere purtroppo sono estremamente sofisticati e funzionali; sono in grado di manipolare e plagiare a proprio piacimento la mente di tante, troppe persone e proprio per questo nasce in me la volontà di “bucare lo schermo” mettendo a disposizione contenuti, facendo controindicazione e controinformazione.
Salviamolo Salviamoci. Video Spot. Un progetto che nasce per affrontare i gravi problemi dei cambiamenti climatici.
Rispondo rimandando a questa lettera aperta che ho scritto lo scorso anno, rivolta proprio all’ANPI. Essere un dirigente dell’Anpi è per me un grande onore. Far vivere la grande esperienza Partigiana dei nostri padri rappresenta la mia volontà di non dimenticare facendo tesoro di chi prima di me ha lottato per un mondo libero dall’orrore delle guerre arrivando anche al sacrificio della propria vita. Lottare per amore di giustizia e di pace e non per odio, rappresenta un messaggio fortissimo per le future generazioni.
L’esperienza partigiana ha impresso all’umanità la volontà di non abbandonarsi alla rassegnazione e alla disperazione e ha raccontato e tramandato vicende fortemente ingiuste che purtroppo sono presenti, anche se in modi diversi, in questo periodo storico complicato. Sì, perché assistiamo alla volontà di potentati militari e industriali che al prezzo di molte vite umane rivendicano il controllo di beni e di ricchezze. Le guerre oggi, come in passato, sono imposte per arricchire pochi a discapito della stragrande parte dell’umanità. Questo mi hanno insegnato i partigiani e questo è il motivo del mio impegno oggi nell’ANPI.
Memoria e futuro: queste due parole cosa rappresentano per te?
Memoria e futuro sono due parole diverse, ma a parere mio praticamente uguali. Ora vi spiego il perché. Parto dalla parola “futuro”, che per antonomasia rappresenta le future generazioni, i giovani. Se aspiriamo alla salvezza dell’umanità dobbiamo assolutamente rivolgerci a loro. Oggi le nuove generazioni, a detta dei media controllati dal potere, sono assenti. Questo è assolutamente falso perché i giovani ci sono, sono presenti e attivi e sono anche estremamente consapevoli dei problemi che ricadono sull’intera umanità. Esiste però un problema! Il potere li teme e di conseguenza li nasconde e offusca ogni loro azione.
I ragazzi di ieri che abbracciano i giovani di oggi. Questo è il pieno significato e valore della memoria storica
Per capire questa mia affermazione l’unica operazione che posso fare è chiamare in causa la seconda parola della domanda e cioè “memoria”. In cosa consiste la memoria? La memoria sono i giovani. Si proprio i giovani. Chi ha resistito lottando contro gli orrori del mondo durante la resistenza antifascista? I giovani. Chi ha lottato per la rivendicazione di diritti basilari nel 1968? I giovani. Chi ha partecipato ai social forum mondiali sui diritti umani? I giovani. Senza i giovani di altre generazioni, senza le loro lotte, oggi tutti noi ci troveremo sicuramente in una condizione estremamente pesante e insostenibile.
I ragazzi di ieri che abbracciano i giovani di oggi. Questo è il pieno significato e valore della memoria storica. Fare tesoro del passato per costruire il futuro. Ecco perché sono a me molto care le parole memoria e futuro, che sono diventate il titolo di un nostro saggio con contributi scritti di Moni Ovadia, Vittorio Agnoletto, Alex Zanotelli e altri importanti attivisti. Da queste due parole noi ci impegniamo perché, come dicono oggi i nuovi attivisti, il tempo sta per scadere e noi dobbiamo fare tutto il possibile per invertire la rotta, per salvarci ancora oggi tutti insieme.
Quando finirà la guerra in Ucraina? Cosa pensano gli italiani del conflitto? Qual è l’approccio migliore, quello militare o quello diplomatico? Muovendosi trasversalmente fra vari temi e attingendo dalla sua lunga esperienza di inviato di guerra, Nico Piro riflette sulla situazione attuale in Ucraina e sulle possibili vie d’uscita da un conflitto la cui fine sembra sempre più lontana.
di LAURA TUSSI e FABRIZIO CRACOLICI
“Maledetti pacifisti” è il titolo dell’ultimo libro del giornalista e reporter di guerra Nico Piro. Un titolo provocatorio che vuole sottolineare come un’informazione equa, obiettiva e libera sulla guerra sia uno strumento di pace fondamentale per contrastare una deriva bellicista che oggi si sta espandendo non solo sul piano politico, ma anche su quello culturale.
Il suo Maledetti pacifisti, vincitore del premio Ilaria Alpi, è un importante libro di denuncia, dal titolo provocatorio. Ma è davvero ancora possibile fare giornalismo al servizio del lettore e non del pensiero unico bellicista? Nico Piro è un inviato di guerra con una lunga esperienza e proprio con lui abbiamo parlato di conflitti, di pace e di comunicazione in merito a questi due temi centrali, soprattutto nell’epoca attuale.
1- Nico Piro, giornalista Rai e inviato di guerra, tu che sei stato insignito anche del premio Ilaria Alpi, e hai scritto l’importante libro di denuncia, dal titolo provocatorio, “Maledetti pacifisti”, quanto ritieni ancora possibile fare giornalismo al servizio del lettore e delle persone e non al servizio del pensiero unico bellicista? Per l’alto ideale della Pace.
La Pace: vi è sempre una possibilità. Perché dipende da noi e oggi dipende da ognuno di noi. Diceva Teresa Sarti Strada che ogni persona deve fare il suo pezzettino e però poi questi pezzettini vanno insieme e formano un mosaico che può cambiare il mondo.
Credo sinceramente che ciascuno di noi è chiamato a fare la differenza e occorre avere la determinazione e la forza di fare la differenza. Poi ovviamente non è facile, ma non è stato mai niente facile. Credo che dobbiamo per esempio con grande forza fare informazione seria, equa, vera, che deve riprendere la battaglia di Gino Strada per l’abolizione della guerra e i tempi sono più che maturi e qualcuno dirà “Ma è impossibile abolire la guerra”.
Ma per la verità, se non ricordo male, sembrava impossibile anche abolire l’apartheid fino agli anni ottanta e poi ci siamo riusciti. Sembrava pure impossibile abolire il segregazionismo razziale in America negli anni sessanta. Poi una donna a un certo punto si è seduta sul posto sbagliato in autobus e ha cambiato tutto. Quindi dobbiamo crederci. Ovviamente crederci significa anche essere pronti a pagare dei prezzi, ma credo che tutto sommato ce la possiamo fare.
2-Che pensi del silenzio assoluto intorno alla conferenza di Vienna sul TPAN, il trattato Onu di proibizione delle armi nucleari che è valso alla rete internazionale Ican il Premio Nobel per la pace nel 2017 per il disarmo nucleare universale? Una vera svolta per il mondo pacifista. Un Premio Nobel per la pace collettivo di cui i testimoni siamo tutti noi nonviolenti e pacifisti affiliati alla rete Ican. E’ una rivoluzione e una speranza per l’umanità intera. E che pensi del fatto che questo trattato ONU, il TPAN, non venga ratificato dai paesi Nato, compreso il nostro? L’egida Nato incombe su molti paesi come il nostro e impone in tutto il mondo guerre, distruzioni, massacri, terrorismo e genocidi.
Purtroppo siamo in una fase in cui i grandi progressi degli anni novanta sul controllo delle armi e delle armi nucleari sono in fase di forte risacca. Stiamo tornando indietro. Quindi credo che invece di ragionare sullo specifico episodio, sia il caso di pensare a cosa sta accadendo a livello complessivo. Purtroppo quelli che un tempo erano un disvalore, ora sono tornati ad essere un valore e cioè le armi e gli armamenti.
Viviamo una corsa globale verso il commercio e il trasporto di armi. Pensiamo al caso del Parlamento italiano. In Italia non siamo riusciti a metterci d’accordo come forza politica. Anzi non sono riusciti a mettersi d’accordo su, per esempio, come fermare la strage quotidiana di morti sul lavoro. Eppure è un’emergenza di cui tutti conosciamo l’evidenza. Tutti i giorni vi è più di un morto sui giornali. Un morto che è uscito di casa non per andare a fare la guerra, ma per andare a lavorare. Eppure in poche ore il Parlamento italiano è riuscito a mettersi d’accordo sull’innalzamento delle spese militari al 2 per cento del PIL, senza per giunta porsi il problema di quanti ospedali, quanti ambulatori, quante scuole, quanti asili chiuderemo per alzare le spese in Italia al 2 per cento.
Quindi credo che il tema oggi sia specificamente quello della abolizione della corsa al riarmo e questa corsa agli armamenti va fermata perché le armi assolutamente fanno un immane danno. Perché di fatto alimentano il ciclo della guerra, ma non solo: sottraggono soldi per utilizzi civili e questo è davvero qualcosa di molto, molto preoccupante.
3-Il pensiero unico bellicista è il risultato dell’enorme potere della industria degli armamenti per cui hanno ragione coloro che affermano che le guerre esistono perché le armi una volta prodotte vanno vendute con adeguata strategia di marketing?
No. Credo che ci sia un problema generale. L’industria delle armi fa il suo lavoro. Semplice. Il problema vero è invece il fatto che ormai si è imposta nello spazio mediatico una cultura della guerra che è la guerra normalizzata. E credo che il vero tema sia questo. Cioè la pace non ha sponsor, la guerra sì. Anche perché la guerra produce profitti monetari e non monetari per una serie di centri di potere. Esempio la politica. Boris Johnson è uno che ha usato il conflitto armato in Ucraina per riscattarsi, riuscendoci per qualche mese poi alla fine ha capitolato. Ha dovuto capitolare per riscattarsi dai disastri combinati dal suo governo in pandemia per il covid.
E quindi il problema vero è che la pace sponsor non ne ha. La pace non ha voce. La pace non ha chi investe sulla pace e questo è, secondo me, colpa dei governi per cui quando comincia una guerra, quando si prepara una guerra, si levano solo e più forte delle altre le voci di chi sostiene il conflitto bellico. Diciamo che nel caso dell’invasione russa dell’Ucraina e il seguente scontro guerresco, si è creata una situazione senza precedenti. Vale a dire è la prima volta che abbiamo memoria di un conflitto e a maggior ragione perché il pensiero unico bellicista non vuole solo avere ragione. Il pensiero unico bellicista lancia uno stigma su tutti quelli che la pensano diversamente. Il pensiero unico bellicista corrode la democrazia. Quindi il tema che ci dobbiamo porre è se oggi non possiamo parlare di pace senza essere trattati da nemici della Patria al soldo del nemico. Domani di cosa non potremo parlare?
4-Ritieni che dopo l’occasione mancata in Italia siano maturi i tempi per un Partito della Pace che si presenti in tutte gli Stati membri alle prossime elezioni europee? E’ necessario che la pace possa essere rappresentata in politica.
Ma io non credo onestamente alla politica, solo politica, intesa come partitica. Sono un dilettante. Quindi non mi applico. Credo che avere un partito della Pace sia limitante. Perché poi alla fine che cos’è la pace? la pace è progresso. Un emblema della pace: Aldo Capitini. Nei giorni scorsi Sono stato alla biblioteca di San Matteo degli Armeni a Perugia dove ho presentato il mio libro “Maledetti pacifisti”. In quella biblioteca sono conservati tutti i suoi documenti, i carteggi e le lettere e mi ha colpito vedere e capire in realtà questa figura. Quell’asceta della pace: Aldo Capitini. E’ una figura che ha fatto una scelta per la Pace. In realtà lui metteva tutto insieme: la pace è progresso. Perché la pace è creativa a vari livelli per tutti.
L’Italia, non dimentichiamolo mai, perché non lo dicono, sta vivendo il più lungo periodo di pace della sua storia che coincide col massimo periodo di benessere del nostro paese. La pace creativa dà dividendi per tutti. La guerra profitti per pochi. Il problema è che la pace li crea a lungo termine. Evidentemente della pace invece ci dobbiamo prendere cura. Perché per questo tipo di occupazione se letteralmente la pace è limitata – perché noi abbiamo bisogno anche di pace sociale – è necessario che questa categoria di pace si diffonda in tutti i settori. Non vi è solo la pace, ma anche la pace dei morti del lavoro, vi è la giustizia, cioè il progresso. Ci sono i diritti. Credo che vada tutto ottenuto insieme. Quindi credo che sia limitante condurre una attiva campagna sulla pace che non tenga conto del progresso. Esattamente come la Resistenza italiana che è stato un fenomeno molto complesso che poi in realtà non voleva difendere solo la nazione, ma voleva difendere il cambiamento. Voleva un paese migliore e poi anche la difesa dell’ integrità territoriale, ma non era solo questo. Era un fenomeno complesso. (Cfr. Resistenza e Nonviolenza creativa, Mimesis Edizioni 2022)
5 -Puoi azzardare una previsione di come finirà tra Russia e Ucraina e quanto durerà la simpatia e l’accoglienza in Europa in favore dei profughi ucraini? Anche se la guerra è sempre fondata sulla violenza.
Spero che la Polonia e i vari paesi imparino da questa vicenda: la gente che fugge dalle guerre va accolta. Non solo se l’altro da noi ha la nostra stessa religione e il nostro stesso colore di pelle. Va accolta sempre. Quindi, me lo auguro. Me lo auguro profondamente. Mi auguro la solidarietà verso i profughi ucraini esattamente come non cessi verso i profughi delle altre guerre. Il problema è che per non cessare deve cominciare. E Crotone ci insegna che non è cominciato o meglio la solidarietà è episodica. Poi un altro tema. Il cosa accade quando proviamo a fare delle previsioni sulla guerra? E’ sempre molto difficile perché la guerra alla fine è un gioco di adattamento alla violenza.
Le guerre sono cose complesse. Ma si reggono su un principio molto semplice: l’adattamento. Io colpisco te. Tu colpisci me. Io mi adatto al tuo colpo affinché non sia un colpo letale e tu ti adatti al mio affinché non sia un colpo letale. Per cui man mano che questo equilibrio di adattamento resta in piedi le guerre durano tra alti e bassi, ma durano. Le guerre lampo esistono solamente nelle speranze dei generali e dei dittatori, ma in realtà le guerre, basta considerare l’Afghanistan, che è l’archetipo dei conflitti contemporanei, cominciano, ma non finiscono. Esistono persone al mondo che hanno il potere di scatenare conflitti micidiali, ma non vi è nessuno su questo pianeta capace di fermarli. Perché non dipende da noi.
Perché quando è scoperto il vaso di Pandora della guerra, i demoni che ne escono fuori hanno una loro autonomia. Quindi non me la sento di fare previsioni. Dico però una cosa. Di stare attenti perché quando si dice “l’unica strada è la guerra” di fatto si prende una pallina e la si butta nella roulette. Ma nella roulette ci sono due colori. Il rosso e il nero. Lo zero è statisticamente trascurabile. Il rosso e il nero: e non è detto che la pallina si fermi dal lato che noi preferiamo. Quindi per questo scegliere la guerra cercando di immaginare una punizione per il cattivo è un modo per affrontare le cose. Tra l’altro il caso afghano ci insegna. La Prima Guerra Mondiale ci insegna. Ma questo conflitto non ha una soluzione militare. Ha solo una soluzione diplomatica. E’ chiaro nel momento in cui prendiamo atto di questo. Prima si arriva a una soluzione diplomatica, prima le persone smettono di morire. Il che mi sembra un tema di cui nessuno si sta facendo carico. Si continua a parlare di questo Risiko, della guerra, senza ricordarci che in mezzo esiste gente che muore.
6-Alla luce dei risultati elettorali, ritieni ancora che la maggioranza degli italiani siano per la pace o vogliono essere solo lasciati in pace?
Mi sembra abbastanza relativo. Credo che gli italiani stiano sentendo dal primo momento il peso della guerra perché i sondaggi sono concordi. Quando sono arrivati gli aumenti del gas, la fine del turismo Russo, la fine delle importazioni, danni per l’economia, inflazione, per cui anche un po’, secondo me, è banale dire che gli italiani non vogliono la guerra perché vogliono farsi i fatti loro. Mi sembra che sia in atto anche un processo di criminalizzazione dei poveri. Cioè i poveri vengono accusati di essere contro la guerra perché non vogliono pagare le bollette. Però una famiglia di basso reddito deve pagare le spese familiari e il reddito è già indirizzato verso l’ineliminabile, ossia l’energia, quindi luce e gas e la spesa. Quindi quello che c’è da mangiare. Poi l’affitto. Ma a che cosa deve rinunciare la gente? queste persone a cosa devono rinunciare? al cinema? all’auto? e probabilmente non la usano più. Alle vacanze? mai fatte. Quindi diciamo questo: a me ricorda un po’ la battuta che gira ancora in Russia su Stalin quando gli dicevano “Compagno segretario il popolo è contrario” e lui rispondeva “Cambiate il popolo”. Cioè se c’è un dato di fatto che in Italia la gente è contro la guerra, ma perché dobbiamo dire tutti i giorni che la gente è stupida?
7-Hai mai conosciuto obiettori di coscienza russi?
No. Anche perché in realtà è un fenomeno che è nato dopo. Soprattutto dopo la costrizione al servizio militare straordinaria di settembre. Gli obiettori di coscienza, i cosiddetti renitenti alle armi, alla leva ci sono anche in Ucraina. Cioè di recente vi è stata un’operazione dei servizi segreti ucraini contro i vertici della Compagnia Portuale di Odessa perché accusati di fabbricare finti documenti di imbarco per consentire ai giovani di non partecipare alla guerra.
Non è giusto verso l’Ucraina raccontarla come la stiamo raccontando cioè come un paese in armi. Ucraina significa terra di confine, quindi Terra di Mezzo e quindi è un paese dove è stata scritta la canzone Sole mio: non è stata composta a Napoli. E’ stata scritta a Odessa. E’ un paese di una complessità notevole. Con un versante filo russo più vicino alla Russia dove sono arrivati negli anni ’30 migliaia e migliaia di russi portati da Stalin per le miniere di carbone. Poi una parte che si sente più polacca. Un paese complesso come l’Italia. E poi noi, l’Italia è un paese complesso per eccellenza. Ma è un paese complesso e quindi come tale va trattato. Non credo sia giusto verso l’Ucraina. Una narrazione funzionale al pensiero bellicista, ma non è giusto definirla come un paese che non si vuole arrendere, dove il popolo vuole combattere fino alla fine, ma credo che il popolo voglia pace e pane e avere magari anche corrente elettrica e gas eccetera.
8 – Cosa puoi dire a due “Maledetti pacifisti” che tutti i giorni si scontrano con altri Maledetti pacifisti per riuscire a trovare una unione di intenti per creare delle azioni serie e concrete al fine di apportare un cambiamento? Quindi l’intenzione del tuo lavoro è una provocazione.
Il fatto di affermare: “Ma questi maledetti pacifisti”. Noi pacifisti veniamo sempre messi un po’ alla berlina. “Il solito pacifista…” Quando porti delle nuove istanze dai sempre fastidio. Però già è importante riuscire noi stessi a metterci insieme e a portare azioni un po’ più concrete e un po’ più con voce. Un po’ più pacifisti. Siamo frastagliati. Siamo divisi. Non vi è più omogeneità perché si fanno avanti i poteri forti spacciati da progressisti: la sinistra con l’elmetto e le destre.
La destra è un universo. Insomma un universo ampiamente frammentato. Pensiamo a tutti i gruppi che stanno più a destra. Le sigle. Pensiamo alle divisioni che oggi ci sono al governo. Eppure riescono sempre a trovare l’unità tra loro. Per noi pacifisti, il tema è superare le differenze e stare insieme per il grande obiettivo. Il grande obiettivo non è solo la pace in Europa e il disarmo. Il grande obiettivo è salvare la democrazia italiana. Perché il pensiero unico bellicista corrode la democrazia. Oggi è questo il problema e se non lo capiamo ci mettiamo in una posizione di enorme difficoltà. Per il futuro. Perché se il popolo della pace con tutte le sue diversità oggi non riesce a reclamare lo spazio non lo reclamerà a lungo.
Quindi credo che noi dobbiamo assolutamente fare lo sforzo – ognuno di noi – di provare a radunare questo mondo variegato del pacifismo. Insomma dall’estate, cioè da quando sono tornato stabilmente in Italia sto girando e sto andando praticamente ovunque. Più di 40 date e in realtà per parlare di pace e di questi argomenti. È un modo per stare a contatto con la vera Italia. La cosa brutta e triste è quando alla fine poi, come mi dovrebbe in realtà lusingare, ma non è così, le persone alla fine mi dicono che si sono sentiti meno sole perché vuol dire che allora le cose stanno veramente messe male. Perché se qualcuno tiene una conversazione e dove non è qualcuno, ma sono tanti e si ripetono e ti vengono a dire grazie. Mi dicono così. “Questa sera ci siamo sentiti meno soli” e vuol dire che siamo in una situazione gravissima. In questo paese stiamo marciando negli anni ’20 degli anni bui del fascismo e questo ci deve far paura. Per questo dobbiamo porci e opporci con forza, perché se non ci opponiamo con forza a questo, tutto il resto diventa assolutamente relativo. Perché poi torniamo alle gabbie salariali. Ma poi dopo le gabbie salariali in concreto cosa troviamo? La giornata di 8 ore lavorative? I contratti nazionali di lavoro? La leva obbligatoria? Dove stiamo andando? Questo è il tema che dovrebbe preoccupare tutti. Piuttosto che esibirsi a chi è più bellicista.
(Cfr. Laura Tussi, con scritti di Fabrizio Cracolici, Giorgio Cremaschi e Paolo Ferrero, Resistenza e Nonviolenza creativa, Mimesis Edizioni 2022)
In collaborazione con Fabrizio Cracolici, attivista di Pace, scrittore e membro direttivo ANPI Monza e Brianza e in collaborazione con il sito Italia Che Cambia, l’articolo è stato pubblicato qui.
La deterrenza nucleare, che è una gara di potere, è sempre usata dalle superpotenze in termini ricattatori e assurdi e crudeli per tutta l’umanità soprattutto nell’attuale guerra in Ucraina
Dal nucleare civile al nucleare militare: il ‘gioco’ è fatto.
È un momento grave per la storia dell’umanità: viviamo all’ombra di circa 25.000 ordigni di distruzione di massa nucleari che possono annientare il pianeta per molte volte.
Questa situazione è resa oggi ancora più delicata dalla corsa verso il nucleare civile, che è ritenuto da molti una buona alternativa all’uso del carbone e dei fossili, principali responsabili dell’effetto serra e dei cambiamenti climatici.
Ma siamo sicuri che il nucleare civile sia un’alternativa valida per i costi e per la sicurezza? I costi sono altissimi e si calcola che negli Stati Uniti il nucleare civile in questi quattro decenni sia costato parecchi miliardi di dollari.
E la possibilità degli incidenti è alta.
Ad esempio l’incidente in Giappone a Fukushima. Ma pensiamo anche al disastro di Chernobyl.
Attualmente sappiamo che il 90 per cento delle 800mila persone addette al risanamento di Chernobyl hanno contratto tumori.
Ma il problema più rilevante è che l’industria nucleare non sa cosa fare dei rifiuti nucleari e che possono durare fino a 20.000 anni.
Il nucleare civile non è una soluzione per i cambiamenti climatici, ma una cinica scommessa dell’industria nucleare di salvare se stessa.
Il nostro deve essere un NO chiaro anche al nucleare civile.
Vari conflitti imposti dai poteri forti a rischio di guerra nucleare.
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, con la paura universale di violenza da parte di tutta l’umanità, con il suo spaventoso carico di morte e distruzioni, al contrario la politica rassicurante attualmente sostiene che non ci possiamo lamentare in quanto il mondo ha vissuto oltre settant’anni di pace, proprio grazie al cosiddetto ‘equilibrio nucleare’.
Nulla di più falso!
La deterrenza nucleare, che è una gara di potere, è sempre usata dalle superpotenze in termini ricattatori e assurdi e crudeli per tutta l’umanità soprattutto nell’attuale guerra in Ucraina.
Ma si dimentica di dire che dal 1945 ai giorni attuali, i conflitti armati veri e propri sono stati più di un migliaio e che nel mondo permangono numerosi, endemici focolai di conflitto violento e armato che hanno fatto decine di milioni di morti e fanno tuttora la fortuna dei produttori di armi e del complesso militare e industriale e fossile e energetico. Con in testa la Nato e gli Stati Uniti l’industria delle armi si alimenta a dismisura innescata come una miccia dal sistema, apparato, complesso militare e industriale e fossile.
L’irrisolta conflittualità armata Mediorientale, che può sfociare nell’irreversibile epilogo nucleare
Uno dei punti nevralgici, che può innescare un conflitto nucleare esplosivo come una miccia all’ennesima e infinitesimale potenza, è rappresentato dal Medio Oriente, una regione per molti aspetti strategica, in primis per il fattore energetico, nella quale negli ultimi decenni la crisi si è ancora più aggravata con le due guerre contro l’Iraq e quella in Afghanistan, il focolaio nevralgico dell’Iran e l’irrisolto problema israelo-palestinese e analizzando il quadro bellico da varianti logistiche e valutando la situazione in un quadro differente, geopoliticamente parlando, possiamo includere anche la attuale e gravissima guerra in Ucraina.
L’irrisolto problema tra Israele e Palestina rappresenta senza dubbio l’elemento più emblematico e drammatico di questa situazione geopolitica dai connotati tragici, che sembrano praticamente irrisolvibili e indistricabili strategicamente.
Lo stesso dramma della Siria va inserito in questo contesto con il rischio già attuale di un’estensione della guerra civile nell’intera regione. Pare che il nodo vero, il terreno sul quale misurare la possibilità reale di una prospettiva di pace, convivenza e cooperazione in quella terra di conflitto, resta senza dubbio alcuno quello dei rapporti tra Israele e Palestina e non è certo a caso che sin dall’ultimo decennio del secolo scorso e anche nei primi anni del nuovo millennio, proprio in quell’area mediorientale, si è manifestato un forte e prioritario impegno umanitario e attivismo del mondo pacifista.
La società civile per “ricomporre l’infranto”
Ecco la ragione per la quale sembra opportuno, e forse necessario, ricostruire, sia pure sommariamente, il senso e la portata di un impegno umanitario e nonviolento e un attivismo di pace molto vivi e sentiti, che hanno visto esprimersi la generosità e la disponibilità di centinaia di donne e di uomini, di decine di istituzioni locali, di numerose associazioni che, generazione dopo generazione, hanno seminato nella terra, culla delle religioni monoteiste la cultura della pace e della convivenza, dove la società civile e le opere di volontariato laico si spendono per “ricomporre l’infranto”.
Sarebbe troppo lungo ricordare le innumerevoli iniziative lungo le quali si è dispiegato questo fondamentale impegno umanistico ancor prima che umanitario, dal “Times for Peace” che ha circondato con una catena umana di italiani, europei, israeliani e palestinesi le mura di Gerusalemme, fino ai progetti di concreta solidarietà con la comunità della cittadina di Rafha nel sud della striscia di Gaza e con la cittadina di Beit Yala alle porte di Betlemme, solo per ricordare i più significativi, oltre all’impegno di più di cinquanta comuni italiani sul terreno della cooperazione, nel tentativo di mettere assieme, far parlare, far interagire, far cooperare i rappresentanti di questi due popoli: Israele e Palestina.
Alex Zanotelli interviene con decisione sul tema delle banche armate per sostenere la campagna di sensibilizzazione sugli investimenti non etici degli istituti finanziari e per difendere la legge 185 dagli attacchi del ministro Crosetto e della lobby delle armi. La sua esortazione contiene due inviti fondamentali, uno alla consapevolezza e all’informazione e un altro alla disobbedienza civile.
Pochi giorni fa si è tenuto un incontro organizzato dall’AIAD – la Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa – alla presenza del ministro Crosetto, che si è detto favorevole a modificare la legge 185 perché sta bloccando troppo la vendita di armi. Le reazioni a questo attacco non si sono fatte attendere e uno dei primi a intervenire è stato Alex Zanotelli: «Non ho mai visto un Governo italiano così prigioniero del complesso militare industriale di questo Paese e questo è gravissimo», ci ha detto.
Un altro aspetto preoccupante che emerge dalle dichiarazioni di Crosetto riguarda il rapporto fra guerra e finanza.
Il ministro si è detto molto preoccupato per le banche etiche perché – a detta sua – diventa sempre più difficile trovare soldi dalle banche che si sentono accusate di non essere etiche. Per questo ha dichiarato di voler fondare una nuova banca che investa soltanto nel militare. Per questo penso che diventi fondamentale in questo momento proprio l’invito a tutti a evitare e soprattutto boicottare le banche armate. Con la guerra in Ucraina verranno prodotte molte armi ed essa andrà avanti perché è importante produrre armamenti e poi smaltirli subito. È il solito modo di procedere.
Cosa ti preoccupa di più di questa situazione?
Quello che mi preoccupa di più non è tanto la reazione della società civile, che purtroppo non è molto cosciente, quanto quella delle comunità cristiane. Il livello dovrebbe essere molto chiaro: non possono lasciare i loro soldi in mano alle banche che investono nella produzione di armi. Quel povero Gesù di Nazareth era il profeta della nonviolenza. Il grande teologo Enrico Chiavacci al Concilio Vaticano Secondo ha detto una cosa molto chiara: un cristiano è obbligato a sapere dove tiene i propri soldi, in quali banche e come quella banca usa quei soldi.
Quello che mi sconcerta di più è quindi il silenzio da parte delle comunità cristiane, delle parrocchie, delle diocesi, dei vescovi. Non riesco a capirlo. Ormai noi cristiani siamo talmente conformati al sistema economico-finanziario militarizzato che accettiamo come una cosa normale che i nostri soldi vengano investiti in tutta questa infernale produzione. Penso che sia importante un appello alle comunità e a tutti i cittadini perché davvero adesso devono compiere una scelta sostanziale. Non vogliamo la guerra, siamo per la pace, ma se poi i soldi li depositiamo in una banca che investe in armi e ordigni militari la coerenza viene meno. È necessario aiutare la gente a capire questo, ma non è facile.
Come valuti oggi il mercato degli armamenti in Italia?
L’anno scorso abbiamo investito per 32 miliardi di euro in armi. È pazzia collettiva. Sono tutti soldi che vengono tolti alla scuola, alla sanità pubblica e ad altri settori vitali. La campagna di boicottaggio delle banche armate dovrebbe motivare la gente, far capire che i suoi soldi non possono essere usati per costruire armamenti che ci stanno conducendo inesorabilmente a un disastro planetario. E dall’altra parte ricordiamoci quanto pesano sull’ecosistema queste guerre, che provocano un altissimo tasso di inquinamento e qui siamo davanti all’estate incandescente.
Vendere armi nelle zone calde, nelle aree di conflitto armato è vietato dalla legge 185/1990, come anche dalla nostra Costituzione. L’export di armamenti è veicolato verso i paesi impegnati nella guerra contro lo Yemen, verso i paesi come l’Egitto di al Sisi e la Turchia di Erdogan. Puoi argomentare queste considerazioni?
Il problema è drammatico. Il Ministro della Difesa Crosetto è molto preoccupato della 185 perché ostacola la vendita d’armi, che lui al contrario vorrebbe accelerare. È una legge nata in seguito a una lunga battaglia di cui ho fatto parte con la rivista Nigrizia. Poi mi hanno “defenestrato” e sono andato in Africa, ma quel movimento, che includeva tantissime organizzazioni, ha portato alla legge 185, che è unica in Europa. È un piccolo strumento per prevenire un sacco di disastri ed è fondamentale difenderlo ostinatamente, anche a costo di pagare di persona.
I caricatori del porto di Genova, i Calp –ma anche quelli di altri porti –, si sono rifiutati di caricare le armi sulle navi destinate all’ Arabia Saudita per la guerra contro lo Yemen. I portuali stanno pagando di persona, sono incriminati e rischiano di essere processati. Ma oggi diventa fondamentale la disobbedienza civile. Giorni fa ho partecipato a un incontro sul caporalato in Campania e il vescovo emerito di Caserta, Monsignor Nogaro, ha detto proprio queste parole: «È arrivato il tempo di gridare che è necessaria la disobbedienza civile. Siamo arrivati a questo punto. Dobbiamo davvero disobbedire».
Questo però vuol dire pagare nella propria vita e so che questo non è facile. Eppure il cittadino che capisce quanto è folle questo sistema drammatico deve avere il coraggio. Questo per le armi ma non solo: ho sempre appoggiato tutte le manifestazioni di Ultima Generazione, fanno bene a fare quello che fanno perché oggi stiamo andando verso il disastro ecologico.
L’idea di base della campagna di pressione sulle banche armate è valida perché tende a bloccare questo sistema di commercio di armamenti. Con quali modalità?
Le modalità di questa campagna di boicottaggio delle banche armate è molto semplice. È necessario comprendere il problema e reagire. Basta semplicemente ritirare i propri soldi dalla banca che investe in armi e vedere di trovare una banca etica, ossia un’altra banca che non investa in armi. È fondamentale questa azione. Tutto questo non è facile perché è chiaro che gli interessi sono tanti perché certe banche – come le tre banche principali in Italia: Unicredit, Intesa Sanpaolo e Deutsche Bank – danno alti dividendi, che sono molto più vantaggiosi, e quindi ognuno anche qui ci perde a livello personale. Ma dobbiamo cominciare a capire che non si può continuare così.
Penso che il successo dipenda da due fattori fondamentali. Finora abbiamo lanciato questa campagna con Pax Christi e le tre riviste Nigrizia, Missione Oggi e Mosaico di pace, ma non basta. Stiamo premendo affinché la chiesa italiana faccia un passo in avanti. Ma allo stesso tempo ci vorrebbe anche da parte della società civile la capacità di rilanciare con forza tutta questa azione, perché molta gente non sa nulla di queste cose.
Il secondo fattore è la disobbedienza civile dei tanti che lavorano in fabbriche d’armi: che si rifiutino di continuare a fare il proprio lavoro. Ho scritto recentemente – in occasione del funerale di Berlusconi – che l’amoralità, cioè la non-moralità, è diventata l’etica del popolo italiano. Questo è il problema: non ci sono più valori né ideali e questo richiede un intervento soprattutto da parte della rete della Chiesa, che deve ricominciare a formare una coscienza di valori.
La campagna di boicottaggio delle banche armate dovrebbe motivare la gente, far capire che i suoi soldi non possono essere usati per costruire armamenti
Il valore delle operazioni segnalate dalle banche italiane relative al commercio di armi sfora i 9 miliardi e mezzo di euro. Le riviste missionarie Nigrizia, Mosaico di pace e Missione oggi come denunciano il fatto che gli istituti di credito si sono messi al servizio delle aziende belliche?
In generale le tre riviste sono molto chiare sulla denuncia di tutto questo ed è fondamentale che continuino in questa loro denuncia, che però da sola non è sufficiente. Sono tre voci che non hanno gran peso nella società italiana. Bisognerebbe che qualche televisione o qualche grosso giornale iniziasse una campagna sul tema, ma chiaramente il problema è che sono tutti parte del sistema: basta vedere un giornale e chi lo paga, da dove riceve fondi. Penso che anche questa sia una vera e propria missione. Sono un missionario e a volte sembra sempre di parlare al deserto, ma è importante continuare a declamare la nostra posizione.
Non smetterà mai di invitare tutti a riflettere su come i nostri soldi vengono usati. Vale per le banche armate, ma vale anche per chi investe in fossili. Sono due facce della stessa medaglia, perché sono le due realtà che ci stanno portando alla possibilità che la presenza umana sul pianeta venga meno.
Anche il PNRR sarà sempre più proiettato all’investimento e produzione di armi?
Il PNRR dovrebbe servire alla società civile, soprattutto servire a portare avanti la scuola e la sanità, ma se i fondi vanno a finire in armi e non rimangono che le briciole per tutto il resto. Questa è una cosa gravissima.
Da molti anni è in atto una sorta di colonizzazione da parte di RWM Italia, importante azienda del settore bellico. La Sardegna e i suoi abitanti sono divisi: da un lato chi contesta l’operato di RWM dal punto di vista etico e sottolinea il forte impatto negativo che l’azienda ha sul territorio sotto il profilo ambientale e quello sociale; dall’altro chi ritiene che la multinazionale crei opportunità di lavoro e ricchezza. Ma è davvero così?
Sud Sardegna, Sardegna – Lo scorso 13 luglio il Parlamento Europeo in seduta plenaria ha approvato il regolamento sull’ASAP Act in support of ammunition production, ovvero l’atto per sostenere l’aumento della produzione di munizioni in Europa. Una norma che, oltre a finanziare con 500 milioni di euro – consentendo agli Stati di attingere anche ai fondi del PNRR – la produzione di armi e munizioni, prevede una serie di agevolazioni e deroghe alle autorizzazioni da concedere alle industrie belliche per accelerare la produzione di munizioni made in Europe. Infatti l’acronimo inglese di ASAP significa “As Soos As Possible”, il più presto possibile.
«Questa è una norma da tempo di guerra che coinvolge sempre più l’Europa nel conflitto Russo-Ucraino», sottolinea con una nota di preoccupazione Graziano Bullegas, segretario di Italia Nostra Sardegna, che segue da vicino le vicende di RWM Italia, controllata dalla multinazionale tedesca Rheinmetall che produce armi ed esplosivi nella provincia del Sud Sardegna. «Questa fabbrica – aggiunge Bullegas – potrebbe quindi trarre grandi vantaggi da questa norma per incrementare la produzione di munizioni da inviare in Ucraina, per ripristinare gli arsenali di tutta Europa e riprendere le esportazioni di munizioni verso i paesi del Golfo che erano state bloccate dal governo Conte nel 2019, blocco revocato lo scorso maggio dal governo Meloni».
Si tratta di nuove facilitazioni per i produttori di armi?
In Sardegna non si è dovuta attendere quella norma per facilitare l’insediamento di industrie che producono ordigni bellici. È bastata una politica industriale devastante sotto l’aspetto ambientale, sanitario, sociale e ovviamente economico, per trasformare il florido territorio del Sulcis-Iglesiente in una delle province più povere d’Europa e per creare il terreno fertile per accogliere qualsiasi attività, anche le più nocive e quelle più improponibili dal punto di vista etico.
In questo clima nasce e prospera lo stabilimento acquisito dalla RWM Italia spa, controllata dalla multinazionale tedesca Rheinmetall, per la produzione di ordigni bellici: bombe per aerei da combattimento e proiettili per cannoni semoventi e per carri armati. L’azienda si inserisce nel tessuto economico, sociale e politico del piccolo centro di Domusnovas – regalie, doni, ristori economici, posti di lavoro e per qualche anno anche il finanziamento della festa patronale di Santa Maria Assunta.
Gli utili dell’azienda vanno alle stelle grazie alla vendita di armi di categoria MK80 – cioè bombe d’aereo e missili – all’Arabia Saudita, che poi le utilizzerà nella guerra in Yemen. Nel 2015 schegge di bombe MK80 sono state ritrovate nelle rovine di alcune città Yemenite bombardate e il loro numero di serie – A4447 – corrisponde allo stabilimento Domusnovas.
Durante il governo Renzi la società è stata autorizzata dall’AUMA a vendere diverse decine di migliaia di bombe per aereo, per un valore totale di oltre 400 milioni di euro. È stata definita dagli esperti la più grossa autorizzazione per l’esportazione di bombe mai rilasciata negli ultimi trent’anni. Per far fronte alle nuove commesse la RWM decide di espandersi e realizza un nuovo stabilimento adiacente a quello esistente.
Considerata l’urgenza di produrre armi, l’espansione dello stabilimento ha seguito un iter autorizzativo semplificato e di dubbia legittimità. Anziché presentare un progetto industriale di espansione, ha deciso di aggirare l’ostacolo, grazie anche alla compiacenza dei vari livelli della pubblica amministrazione e ha presentato una miriade di richieste di autorizzazione edilizia indipendenti, sperando cosí di bypassare procedura di valutazione di impatto ambientale, nulla osta paesaggistici dell’intero intervento urbanistico industriale e autorizzazioni ambientali.
Con una serie di artifizi l’azienda è comunque riuscita a ottenere tutte le autorizzazioni senza dover assoggettare l’impianto a procedura di VIA e di VINCA – nonostante sia ubicato a poche centinaia di metri da un Sito di Importanza Comunitaria (SIC) – e senza presentare alcun piano di intervento industriale e utilizzo delle terre di risulta movimentate.
Ci sono state reazioni di dissenso da parte della comunità locale?
L’arrivo dell’industria bellica ha comportato anche una serie di conseguenze negative. Dal punto di vista sociale, ha alimentato tensioni e divisioni nell’area vasta dell’Iglesiente. Molti cittadini hanno espresso perplessità sulla presenza di un’azienda che produce armi, in quanto il loro utilizzo alimenta conflitti e guerre in tutto il mondo.
Anche sotto l’aspetto economico, pur avendo portato alcuni benefici economici alla comunità di Domusnovas, come posti di lavoro e investimenti, ha inibito la nascita di attività più sostenibili nell’area e la stessa occupazione spesso sbandierata a sproposito è composta per buona parte da lavoratori somministrati, in quanto l’industria militare è spesso soggetta a fluttuazioni del mercato ed è influenzata da politiche esterne e cambiamenti nel settore della difesa. Ciò ha portato al licenziamento di numerose maestranze lasciando la comunità ancora più impoverita di prima.
Già dopo il 2015, a seguito della scoperta della scheggia di bomba che aveva distrutto una famiglia in Yemen, diversi cittadini hanno deciso di impegnarsi in prima persona riunendosi nel Comitato Riconversione RWM. Attorno e a sostegno del Comitato ritroviamo ambientalisti, antimilitaristi, parte della chiesa, sindacati di base ed etnici, associazioni culturali e del terzo settore.
Si sono create così le prime contraddizioni e le prime fratture dentro una comunità che appariva coesa nella ricerca di opportunità di sopravvivenza e che ragionava più con la pancia che col cervello. Da una parte la comunità di Domusnovas compatta a difesa della RWM, sostenuta da molti politici locali e regionali, dall’altra numerosi cittadini-militanti. I favorevoli sostengono che il lavoro viene prima di tutto e che se queste armi non si costruiscono in quello stabilimento le costruiranno comunque da altre parti; i contrari sollevano questioni etiche e morali e parlano di riconversione e di rispetto della legalità.
Quali sono state le azioni di contrasto all’attività della fabbrica?
Oltre agli incontri, i sit-in, le manifestazioni di fronte allo stabilimento, l’attività di sensibilizzazione, la creazione di una rete di aziende che aderiscono alla rete WarFree – Lìberu dae sa Gherra, si è condotta una intensa azione giudiziaria coinvolgendo la magistratura penale e quella amministrativa. Nello stesso tempo si è attivato un pressing verso il governo perché l’Italia rispetti l’art. 11 della costituzione e i trattati internazionali contro la proliferazione delle armi.
Contrasto e proposta quindi. Quali sono gli obbiettivi di WarFree?
La rete Warfree nasce con l’intento di promuovere una nuova economia – civile, sostenibile e libera dalla guerra – in Italia e nel mondo, a partire dalla Sardegna, e per mettere a valore le numerose opportunità che offre il suo territorio e presentarlo come un luogo da cui nasce una proposta di pace.
Nello stesso tempo si propone di offrire alla comunità e ai decisori politici un segno di economia positiva per testimoniare le strade alternative all’industria delle armi e alla colonizzazione dei territori. Dimostrare che è possibile vivere praticando un lavoro degno, offrendo occasioni di crescita e strumenti di promozione alle imprese e ai professionisti che aderiscono alla rete.
Le iniziative sul fronte giudiziario?
Alcune delle autorizzazioni ottenute per l’ampliamento dello stabilimento sono state impugnate davanti al TAR da numerose associazioni, comitati e sindacati di base. Dopo una lunga istruttoria e dopo aver sentito il parere di un consulente tecnico, il TAR Sardegna ha respinto il ricorso accogliendo le ragioni dell’azienda, della regione sarda e del Comune di Iglesias.
Giudizio appellato da Italia Nostra, USB e Assotziu Consumadoris de Sardinia davanti al Consiglio di Stato, che ha ribaltato a novembre 2021 la sentenza del TAR e accolto le motivazioni del ricorso annullando le autorizzazioni edilizie rilasciate dal Comune. Abbiamo anche presentato un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica di cui non conosciamo l’esito, anche perché il Comune di Iglesias lo ha tenuto nascosto in un cassetto per anni, anziché presentarlo al competente ministero.
Grazie alla documentazione raccolta nel corso del giudizio amministrativo, abbiamo notato numerose incongruenze, informazioni non veritiere, autorizzazioni rilasciate dopo l’avvio dei lavori, edifici costruiti in aree a rischio esondazione e altri elementi che abbiamo allegato a numerosi esposti trasmessi alla procura di Cagliari. Quelli esposti hanno consentito alla procura di avviare delle indagini che hanno portato a processo alcuni dirigenti e tecnici della RWM Italia e alcuni funzionari dei Comuni di Domusnovas e di Iglesias. Il processo è tutt’ora in corso.
Quali sono stati gli effetti della sentenza a voi favorevole?
La sentenza del CdS è importante perché riconosce la produzione di esplosivi all’interno di RWM e ritiene che l’intero stabilimento, anche quello attualmente in produzione, debba essere assoggettato a Valutazione di Impatto Ambientale. Il primo effetto della sentenza è stato quello di fermare l’attività nella parte dell’ampliamento che era già in esercizio – il campo prove dove vengono testati gli esplosivi prodotti – e non avviare la produzione nel resto dello stabilimento ampliato, nonostante i lavori fossero dichiarati ultimati il giorno successivo al deposito della sentenza.
Come ha reagito l’azienda al ribaltamento del giudizio?
L’azienda ha presentato una richiesta di revocazione della sentenza in quanto il giudice avrebbe commesso un errore nella sua compilazione, richiesta non accolta dal CdS. Ha quindi presentato una richiesta di VIA ex-post, una procedura prevista dalla legge, ma che nel caso in esame appare una richiesta di sanatoria dei reparti realizzati abusivamente.
L’emancipazione della Sardegna da un rapporto coloniale con le aziende inquinanti è sicuramente la strada migliore per garantire un futuro sostenibile
Sarebbe quindi possibile sanare le opere realizzate abusivamente?
Noi siamo del parere che gli impianti sono da considerarsi abusivi perché privi di una autorizzazione legittima e dovrebbero essere demoliti. Questa è anche richiesta avanzata dai legali delle associazioni al Comune di Iglesias. Considerata la procedura di VIA ex-post in corso, abbiamo ripetutamente chiesto alla Regione di rigettare la richiesta perché non conforme a quanto stabilito dalla sentenza del CdS e nel contempo stiamo partecipando alla procedura di VIA in corso per spiegare al servizio valutazione impatti, attraverso le nostre osservazioni, le motivazioni per cui quella richiesta non può essere accolta.
Come sono giustificati dall’azienda gli abusi edilizi?
RWM continua a ripetere fino alla nausea che l’ampliamento dello stabilimento è stato regolarmente autorizzato e che pertanto quelli che oggi sono alla sbarra non dovrebbero essere processati perché è tutto in regola. Tutto questo fa parte di una narrazione non veritiera e smentita dalle sentenze dei tribunali amministrativi, ma che risulta utile all’azienda per apparire una vittima della burocrazia e per accreditarsi nel territorio come la dispensatrice di benessere e occupazione e allo stesso tempo sperare di trarre profitto dalle nuove normative europee in materia di produzione di munizioni.
Esiste un futuro per RWM Italia in Sardegna?
Fino a oggi RWM ha operato in Sardegna con l’approccio tipico degli insediamenti industriali avviati nei paesi poveri da parte delle grosse multinazionali occidentali: agevolazioni burocratiche e iter autorizzativi privilegiati, una eccessiva permissività verso l’azienda che avrebbe portato il benessere, una palese ostilità verso chi chiede di sapere e una evidente insofferenza verso le norme sulla trasparenza e la partecipazione dei cittadini.
Infatti l’applicazione delle norme italiane e sarde e delle direttive europee non è stata del tutto conforme; basti pensare al mancato rispetto del Piano Paesaggistico Regionale, del codice dell’Ambiente e delle numerose norme urbanistiche che regolamentano gli insediamenti industriali. Nel merito del mancato rispetto delle direttive europee è entrato il Consiglio di Stato, ricordando in particolare la Direttiva del 1985 concernente la valutazione dell’impatto ambientale e l’articolo 191 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (UE) sul Principio di Precauzione.
L’emancipazione della Sardegna da un rapporto coloniale con le aziende inquinanti è sicuramente la strada migliore per garantire un futuro sostenibile. Questo implica liberarsi non solo dalle fabbriche di armi, ma anche da tutte le produzioni dannose per l’ambiente e la salute. Dobbiamo tornare a valorizzare le attività primarie che hanno sostenuto la vita sull’isola fino alla metà del secolo scorso, prima dell’espansione dell’industria. Queste attività, se adeguatamente supportate, possono garantire un futuro sostenibile per la Sardegna.
Dobbiamo aderire al messaggio di papa Francesco contro il “commercio assassino” e promuovere un’economia nuova che rispetti il lavoro dignitoso e il creato. Le associazioni ambientaliste devono promuovere attivamente tutte le attività ecologicamente sostenibili, contrastando allo stesso tempo quelle che danneggiano l’ambiente e la salute. In questo modo, la Sardegna può diventare un esempio di sviluppo sostenibile, basato sulla valorizzazione delle risorse naturali e sull’economia verde. Questo non solo proteggerà l’isola e la sua popolazione, ma contribuirà anche alla lotta globale contro il cambiamento climatico e la distruzione dell’ambiente.
Dal nucleare civile al nucleare militare: il ‘gioco’ è fatto.
È un momento grave per la storia dell’umanità: viviamo all’ombra di circa 25.000 ordigni di distruzione di massa nucleari che possono annientare il pianeta per molte volte.
Questa situazione è resa oggi ancora più delicata dalla corsa verso il nucleare civile, che è ritenuto da molti una buona alternativa all’uso del carbone e dei fossili, principali responsabili dell’effetto serra e dei cambiamenti climatici.
Ma siamo sicuri che il nucleare civile sia un’alternativa valida per i costi e per la sicurezza? I costi sono altissimi e si calcola che negli Stati Uniti il nucleare civile in questi quattro decenni sia costato parecchi miliardi di dollari.
E la possibilità degli incidenti è alta.
Ad esempio l’incidente in Giappone a Fukushima. Ma pensiamo anche al disastro di Chernobyl.
Attualmente sappiamo che il 90 per cento delle 800mila persone addette al risanamento di Chernobyl hanno contratto tumori.
Ma il problema più rilevante è che l’industria nucleare non sa cosa fare dei rifiuti nucleari e che possono durare fino a 20.000 anni.
Il nucleare civile non è una soluzione per i cambiamenti climatici, ma una cinica scommessa dell’industria nucleare di salvare se stessa.
Il nostro deve essere un NO chiaro anche al nucleare civile.
Vari conflitti imposti dai poteri forti a rischio di guerra nucleare.
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, con la paura universale di violenza da parte di tutta l’umanità, con il suo spaventoso carico di morte e distruzioni, al contrario la politica rassicurante attualmente sostiene che non ci possiamo lamentare in quanto il mondo ha vissuto oltre settant’anni di pace, proprio grazie al cosiddetto ‘equilibrio nucleare’.
Nulla di più falso!
La deterrenza nucleare, che è una gara di potere, è sempre usata dalle superpotenze in termini ricattatori e assurdi e crudeli per tutta l’umanità soprattutto nell’attuale guerra in Ucraina.
Ma si dimentica di dire che dal 1945 ai giorni attuali, i conflitti armati veri e propri sono stati più di un migliaio e che nel mondo permangono numerosi, endemici focolai di conflitto violento e armato che hanno fatto decine di milioni di morti e fanno tuttora la fortuna dei produttori di armi e del complesso militare e industriale e fossile e energetico. Con in testa la Nato e gli Stati Uniti l’industria delle armi si alimenta a dismisura innescata come una miccia dal sistema, apparato, complesso militare e industriale e fossile.
L’irrisolta conflittualità armata Mediorientale, che può sfociare nell’irreversibile epilogo nucleare
Uno dei punti nevralgici, che può innescare un conflitto nucleare esplosivo come una miccia all’ennesima e infinitesimale potenza, è rappresentato dal Medio Oriente, una regione per molti aspetti strategica, in primis per il fattore energetico, nella quale negli ultimi decenni la crisi si è ancora più aggravata con le due guerre contro l’Iraq e quella in Afghanistan, il focolaio nevralgico dell’Iran e l’irrisolto problema israelo-palestinese e analizzando il quadro bellico da varianti logistiche e valutando la situazione in un quadro differente, geopoliticamente parlando, possiamo includere anche la attuale e gravissima guerra in Ucraina.
L’irrisolto problema tra Israele e Palestina rappresenta senza dubbio l’elemento più emblematico e drammatico di questa situazione geopolitica dai connotati tragici, che sembrano praticamente irrisolvibili e indistricabili strategicamente.
Lo stesso dramma della Siria va inserito in questo contesto con il rischio già attuale di un’estensione della guerra civile nell’intera regione. Pare che il nodo vero, il terreno sul quale misurare la possibilità reale di una prospettiva di pace, convivenza e cooperazione in quella terra di conflitto, resta senza dubbio alcuno quello dei rapporti tra Israele e Palestina e non è certo a caso che sin dall’ultimo decennio del secolo scorso e anche nei primi anni del nuovo millennio, proprio in quell’area mediorientale, si è manifestato un forte e prioritario impegno umanitario e attivismo del mondo pacifista.
La società civile per “ricomporre l’infranto”
Ecco la ragione per la quale sembra opportuno, e forse necessario, ricostruire, sia pure sommariamente, il senso e la portata di un impegno umanitario e nonviolento e un attivismo di pace molto vivi e sentiti, che hanno visto esprimersi la generosità e la disponibilità di centinaia di donne e di uomini, di decine di istituzioni locali, di numerose associazioni che, generazione dopo generazione, hanno seminato nella terra, culla delle religioni monoteiste la cultura della pace e della convivenza, dove la società civile e le opere di volontariato laico si spendono per “ricomporre l’infranto”.
Sarebbe troppo lungo ricordare le innumerevoli iniziative lungo le quali si è dispiegato questo fondamentale impegno umanistico ancor prima che umanitario, dal “Times for Peace” che ha circondato con una catena umana di italiani, europei, israeliani e palestinesi le mura di Gerusalemme, fino ai progetti di concreta solidarietà con la comunità della cittadina di Rafha nel sud della striscia di Gaza e con la cittadina di Beit Yala alle porte di Betlemme, solo per ricordare i più significativi, oltre all’impegno di più di cinquanta comuni italiani sul terreno della cooperazione, nel tentativo di mettere assieme, far parlare, far interagire, far cooperare i rappresentanti di questi due popoli: Israele e Palestina.