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Marco Bersani: Attac e il sogno di un mondo “abitabile con dignità”

di Laura Tussi (sito)

A quasi dieci anni di distanza dal nostro primo incontro, parliamo di nuovo con Marco Bersani di Attac Italia delle grandi battaglie globali per una società più equa, dignitosa e sostenibile. Dalla storica campagna per l’acqua bene comune all’opposizione a guerre e militarismo, ripercorriamo i più di vent’anni di storia di una delle più rappresentative fra le reti di movimenti altermondialisti. 

«Dobbiamo riappropriarci degli spazi della democrazia», ci ha detto Marco Bersani quando lo abbiamo incontrato per la prima volta, ormai dieci anni fa. Era da poco passata la prima ondata dei movimenti anti globalizzazione, era il periodo della grande lotta contro la privatizzazione delle risorse idriche e Attac Italia, che Bersani rappresenta, era in prima fila, così come oggi. Abbiamo risentito Marco per fare il punto sulle battaglie vecchie e nuove del movimento, senza dimenticare le drammatiche contingenze che il mondo sta vivendo, con una spinta bellica che è purtroppo ancora più preoccupante del periodo in cui Attac emetteva i suoi primi vagiti.

Attac Italia nasce nel 2001 ed è parte della rete internazionale di Attac, una delle più grandi fra quelle che criticano il neoliberismo, costruita in questi anni dal movimento altermondialista. Perché si autodefinisce “movimento di autoeducazione orientata all’azione”?

L’atto di nascita di Attac può essere ricondotto alla pubblicazione nel 1997 dell’articolo Disarmare i mercati di Ignacio Ramonet su le Monde Diplomatique. In quell’articolo si sottolineava come la cifra del capitalismo odierno dovesse essere ricercata nella progressiva finanziarizzazione dell’economia e come solo inserendo quel tema nell’agenda dei movimenti sociali si potesse affrontare adeguatamente quello che veniva denominato “il modello liberista”.

marco bersani

Tassazione delle transazioni finanziarie, messa in discussione del debito, lotta ai paradisi fiscali, all’egemonia culturale neoliberale e al formarsi di un’oligarchia finanziaria furono gli assi sui quali nacque nell’anno successivo Attac France e via via tutte le realtà nazionali che composero ben presto la rete internazionale di Attac. L’associazione è presente in oltre 40 Paesi, da quasi tutti gli stati europei al nord Africa, dall’America Latina al Giappone.

Per quanto riguarda l’Italia, il percorso vide nella primavera del 2000 il lancio di un primo appello – “Facciamo Attac” –, al quale seguirono decine di assemblee in tutto il Paese che portarono alla costruzione di una tre giorni nazionale a Bologna nel giugno 2001, un mese prima delle straordinarie e drammatiche giornate del G8 di Genova.

Attac si autodefinisce “movimento di autoeducazione orientata all’azione” perché da una parte ritiene che, proprio per capire la complessità del modello capitalistico al tempo della finanziarizzazione, occorra formarsi e saper analizzare i repentini mutamenti della realtà che ci circonda. Dall’altra, ha sempre considerato la formazione come propedeutica all’azione. Perché il mondo non va solo capito, ma anche trasformato. Sono queste le ragioni per le quali l’attività di Attac si caratterizza per l’organizzazione di università popolari nazionali e territoriali e, nel contempo, per la costruzione e/o partecipazione a campagne e mobilitazioni di massa.

Come Attac siete stati parte del movimento altermondialista di Genova 2001?

Attac è stata l’unica organizzazione non brasiliana fra le promotrici del Forum Sociale Mondiale che ha esordito nel 2001 a Porto Alegre e si è successivamente dato un appuntamento annuale mondiale in diversi luoghi del pianeta, per coordinare la rete globale dei movimenti sociali che, dietro lo slogan “Un altro mondo è possibile”, lanciarono la sfida al modello liberista, costruito attorno alla famosa frase pronunciata nel 1979 dall’allora premier inglese Margareth Thatcher: “There is no alternative”.

Genova 2001 fu sostanzialmente il battesimo di piazza di Attac Italia, che partecipò sin dall’inizio al processo di costruzione e di avvicinamento a quell’appuntamento; nel mentre stava contemporaneamente costruendo il proprio avvio sul territorio italiano. Questa doppia “gravidanza” – la nascita di Attac Italia e la nascita del movimento altermondialista nel nostro Paese – fu un’esperienza ricca, intensa e straordinaria.

Attac era una delle moltissime reti che facevano parte del Genoa Social Forum e il sottoscritto era, a nome dell’associazione, membro del Consiglio dei Portavoce che ha costruito e gestito quelle drammatiche giornate, nelle quali le élite politiche, economiche e militari decisero che quella straordinaria partecipazione di massa andava stroncata con la repressione più violenta mai prodottasi in questo Paese dalla nascita dell’Italia repubblicana. Perdemmo Carlo in quelle giornate e con lui un po’ dell’innocenza e della speranza di quel movimento.

Di tutti movimenti pacifisti e associazioni per la nonviolenza e il disarmo siamo affiliati a ICAN, la campagna internazionale per l’abolizione delle armi di distruzione di massa nucleari. Ican ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2017 per aver costituito il trattato ONU TPAN, trattato per la proibizione degli ordigni nucleari. Come si pone Attac nei confronti dei vari governi per fare ratificare questo trattato?

Pur non essendo il tema del disarmo uno di quelli sui quali Attac produce un’attività specifica, la nostra associazione è da sempre per la costruzione di una società senza esercito, senza armi e, naturalmente, senza nucleare civile e militare. La proliferazione di armi e la detenzione di bombe atomiche non hanno nulla a che fare con la deterrenza, né tantomeno con la sicurezza delle popolazioni, come la storia dimostra.

attac italia2

Solo una società che si cura è una società sicura. La guerra è il massimo dell’incuria: distrugge vite, famiglie e relazioni, devasta territori e ambiente, sradica le esistenze delle persone, esaspera le disuguaglianze sociali, ingabbia le culture, sottrae la democrazia. Lo strumento della guerra è figlio legittimo della cultura patriarcale, quella che persegue il dominio e la sopraffazione, e rimuove ogni consapevolezza sulla fragilità dell’esistenza e sull’interdipendenza fra le persone e con l’ambiente che abitano.

La ratifica del Trattato ONU TPAN dovrebbe essere il primo atto di ogni governo democratico e, nel caso dell’Italia, dovrebbe essere accompagnata dallo sfratto immediato delle decine di testate nucleari che il nostro Paese continua a ospitare – in totale spregio della nostra Costituzione – presso le due basi militari di Ghedi (BS) e di Aviano (PN). È una battaglia che acquista ancor più importanza in questi ultimi anni dove la guerra sembra diventata ormai l’unica modalità di governo nella riorganizzazione geopolitica dei rapporti di forza far le grandi e meno grandi potenze statuali, economiche e militari.

Attac Italia è stata fra i promotori del Forum italiano dei movimenti per l’acqua e del Comitato referendario “2 SI per l’Acqua bene comune”, che ha portato alla vittoria referendaria nel giugno 2011. È da sempre impegnata sul tema dei beni comuni come base per la costruzione di un altro modello sociale basato sulla democrazia partecipativa. In quali altre campagne è impegnata?

Ci tengo a sottolineare che tutte le campagne dentro le quali Attac ha dato il suo importante contributo seguono il filo rosso della finanziarizzazione. Anche la campagna per l’acqua pubblica – una stagione straordinaria di partecipazione sociale che è stata capace di produrre interamente dal basso addirittura una vittoria referendaria – ha visto Attac in prima fila perché nel frattempo il processo di finanziarizzazione era “straripato” dall’economia, alla società, alla natura e ai beni comuni.

Attac ha sempre considerato la formazione come propedeutica all’azione. Perché il mondo non va solo capito, ma anche trasformato

Successivamente a quel percorso, siamo stati fra i promotori della campagna Stop Ttip, successivamente estesasi a tutti i trattati di libero scambio, i quali, dietro la triade “crescita, concorrenza, competitività” si prefiggono di considerare i diritti del lavoro, i diritti sociali e i diritti della natura come variabili dei profitti delle multinazionali.

Contemporaneamente abbiamo promosso la critica radicale ai vincoli di austerità imposti dall’UE, mettendo al centro da una parte la questione della trappola ideologica del debito e la necessità del suo annullamento, contribuendo alla nascita anche in Italia di CADTM, il Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi. Dall’altra, focalizzando il tema di una nuova finanza pubblica e sociale sia aprendo un focus su Cassa Depositi e Prestiti – che gestisce 280 miliardi di risparmi dei cittadini – sia a livello di comunità territoriali con la recente campagna “Riprendiamoci il Comune”.

Siamo infine fra i promotori del percorso della “società della cura”, uno spazio politico attraversato da centinaia di realtà, nato durante la pandemia per mettere in campo non solo la presa d’atto collettiva della totale insostenibilità del modello capitalistico, ma anche la costruzione di un’alternativa di società basata sul paradigma della cura – di sé, delle altre e degli altri, del vivente e del pianeta – contro l’attuale paradigma del profitto che permea la società, la natura e l’intera vita delle persone. Siamo una piccola e importante realtà con un unico obiettivo: contribuire a cambiare il mondo per renderlo abitabile con dignità per tutte e tutti.

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C’ERA UNA VOLTA IN ITALIA, UN DOCUMENTARIO SULLA PRIVATIZZAZIONE DELLA SANITÀ. INTERVISTA A VITTORIO AGNOLETTO.

Intervista a Vittorio Agnoletto sul film “C’era una volta in Italia. Giacarta sta arrivando”.

di Laura Tussi (sito)

Vittorio Agnoletto: “Ecco come la privatizzazione sta cancellando il diritto alla salute”

Un viaggio che abbraccia il mondo intero partendo da Cariati, piccolo centro calabrese che ha rappresentato una svolta nel percorso delle lotte per il diritto alla salute a livello globale, grazie anche all’appoggio di nomi illustri come Roger Waters e Ken Loach. C’era una volta in Italia è il docufilm narrato da Vittorio Agnoletto che affronta proprio questi temi. Ne abbiamo parlato con lui.

Da vari mesi il documentario “C’era una volta in Italia. Giacarta sta arrivando” viene diffuso in tutto il Paese e sta riscuotendo un importante successo che si basa solo sul passa parola tra associazioni che ne organizzano la proiezione nelle varie sale cinematografiche e nei vari ambiti tematici. L’argomento è drammatico. Riguarda soprattutto la privatizzazione della sanità pubblica. Gli interlocutori del film sono Vittorio Agnoletto, Gino Strada, Roger Waters, Ken Loach, Jean Ziegler, Nicoletta Dentico e altri, tutte personalità celebri e rinomate per le loro lotte sociali e per il loro impegno civile. Vogliamo intervistare Vittorio Agnoletto a proposito di questo film e documentario in cui lui è uno dei protagonisti e delle voci narranti.

Il docufilm si sviluppa su differenti scenari: locale, nazionale e mondiale. Qual è il tema che tiene insieme queste differenti narrazioni?

Il tema è molto semplice: la conquista del diritto all’assistenza sanitaria pubblica in tutto il mondo e l’attacco che il neoliberismo porta a questo diritto nel tentativo di trasformare la nostra salute in merce e di trasformare un diritto universale in un profitto per pochi. La particolarità del film è proprio quella di tenere insieme un racconto che si svolge in un piccolo paesino della Calabria – ed è una storia vera di una popolazione che si oppone alla chiusura di un ospedale, anzi che lotta per ottenerne la riapertura – con la dimensione nazionale, europea e globale, mostrando che la situazione è simile in diverse parti del mondo dove la sanità pubblica è sotto attacco.

A livello mondiale nel 1948 l’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, stabilisce che la salute non è solo assenza di malattia, ma “uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”. Che rapporto sussiste tra questa affermazione e quanto stabilito nella nostra Costituzione?
Vi è un parallelismo impressionante, una coincidenza incredibile di date tra l’elaborazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e l’affermarsi del diritto alla salute nel nostro Paese. Una coincidenza temporale che non esiste in nessun’altra nazione al mondo.

Due sono le date fondamentali: il 1948 e il 1978.

Il 1948 entra in funzione ufficialmente l’OMS che elabora la definizione di salute quale “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non semplicemente assenza di malattia o infermità”. Siamo di fronte ad una visione olistica che tiene insieme tutti gli aspetti dell’essere umano, il quale viene collocato dentro una forte dimensione sociale. Per parlare di “benessere” si deve tener conto di tutte queste condizioni. Sempre nel 1948, il 1° gennaio, entra in vigore anche la nostra Costituzione che all’art. 32 recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…”.

Trent’anni dopo, nel 1978 si svolge la grande conferenza mondiale dell’OMS ad Alma Ata, una città dell’ex Unione Sovietica, dove viene riaffermato che la salute è un diritto umano fondamentale e che l’assistenza sanitaria primaria deve essere garantita a tutti.

Nello stesso anno, nel 1978, in Italia viene approvata la riforma sanitaria, la legge 833, che istituisce un Servizio Sanitario Nazionale (SSN), universalistico, ad accesso gratuito perché sostenuto dalla fiscalità in modo proporzionale rispetto ai guadagni di ciascuno.

Il 1948 e il 1978 rappresentano i due momenti più alti nella storia della affermazione del diritto alla salute sia a livello globale che a livello nazionale.

Dopodiché cosa accade?

Il ciclo dei movimenti e delle grandi lotte si esaurisce in Italia e in tutto il mondo occidentale. Inizia una china discendente e diventa sempre più difficile controllare l’applicazione di quella riforma.

Non dimentichiamoci che, quando nasce la riforma sanitaria in Italia, ci sono già diversi consultori attivati dal movimento delle donne e i primi servizi di medicina del lavoro, dentro le fabbriche più inquinanti, organizzati spontaneamente dai lavoratori dopo l’autunno caldo. Con la riforma del 1978 queste realtà vengono integrate nel SSN. Ma già negli anni immediatamente seguenti si rafforza il tentativo di abbattere tali conquiste e questo avviene sia a livello nazionale che a livello internazionale.

Come mai?

Perché nel frattempo in quegli anni, a partire dalla Scuola di Chicago, si sviluppa il pensiero neoliberista che pone al centro il mercato, entità onnipotente, che sarebbe in grado di autoregolamentarsi distribuendo dividendi di giustizia sociale in tutto il mondo.

Noi sappiamo che non è assolutamente così.

La prima nazione a sperimentare il pensiero liberista fu il Cile, dopo il colpo di stato dell’11 settembre 1973, quando la giunta militare del generale Pinochet affidò la gestione economica di quel Paese agli esperti neoliberisti formatisi alla Scuola di Chicago. Negli anni seguenti arrivano al potere Margaret Thatcher in Gran Bretagna, che conduce un durissimo attacco contro i minatori e contro il diritto di sciopero e negli Stati Uniti Ronald Reagan. Tra i principali obiettivi di questi governi neoliberisti vi è proprio l’attacco alla sanità pubblica e il servizio sanitario inglese, il primo sorto in Europa a vocazione universalistica, viene massacrato e distrutto proprio dalla Thatcher.

L’OMS subisce fortissimi contraccolpi a causa dell’affermarsi della logica del mercato in ogni ambito della società, sanità compresa.

I principi solennemente affermati ad Alma Ata e l’obiettivo della salute per tutti entro il 2000 non verranno mai realizzati.

In Italia, pochi anni dopo l’approvazione della L. 833/’78 si insedia al ministero della sanità un liberale, che era l’unico partito ad aver votato contro la riforma sanitaria.

Da quel momento verranno costantemente inseriti elementi e pratiche di privatizzazione nel Servizio Sanitario fino alla definitiva apertura alle aziende e al capitale privato.

Viene per esempio autorizzata l’intramoenia cioè la possibilità per i medici dipendenti pubblici di svolgere attività privata all’interno del servizio sanitario. Viene inserito il concetto di convenzione o accreditamento tra il SSN e le strutture private. sono istituiti i ticket, per cui scompare la gratuità dell’accesso alla sanità pubblica per altro già finanziata da ognuno di noi attraverso le tasse. Questo smantellamento della valenza pubblica del SSN prosegue nei decenni fino ad arrivare alla situazione attuale, dove in gran parte d’Italia la possibilità o meno di curarsi dipende dal portafoglio. Ma questa non è una storia puramente italiana, è una vicenda che si sviluppa dal locale al globale e attraversa tutto il pianeta.

Ed allora si torna a Cariati, al piccolo paesino in Calabria, dove in una sola notte, proprio in base a questa logica neoliberista, erano stati chiusi diciannove ospedali, tra cui quello di Cariati; qui la popolazione non ha dove curarsi, gli altri ospedali sono lontani, le strade, che le ambulanze dovrebbero percorrere, sono in pessime condizioni. La lotta dei cittadini di questo paese ci rimanda allo scontro apertosi a livello mondiale che nel film viene raccontata da Ken Loach, Jean Ziegler e da chi, fra noi, da decenni si batte in difesa del diritto di tutti alla salute.

Quali sono le principali tappe che ripercorre il film?

In parte l’abbiamo già detto. Abbiamo già citato il neoliberismo e gli attacchi che subisce la sanità pubblica fino ad arrivare ai giorni nostri, dove abbiamo addirittura reparti gestiti da privati dentro gli ospedali del SSN. In Italia, un altro passaggio è stato il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego e il mancato adeguamento degli stipendi degli operatori sanitari, con la conseguenza che negli ultimi vent’anni ben 180.000 di costoro hanno abbandonato l’Italia per andare a lavorare all’estero.

Come spiegavo prima, questi processi si verificano anche a livello globale; inizialmente il bilancio dell’OMS era sostenuto unicamente dalle nazioni e ogni Paese, in base ad alcuni indicatori come il Pil, il reddito pro capite, l’età della popolazione e la ricchezza, doveva destinare una parte delle sue risorse economiche al funzionamento dell’OMS.

Oggi non è più così, le strutture private, aziende e fondazioni possono finanziare l’OMS attraverso risorse destinate e vincolate a specifici interventi/progetti.

L’OMS non è più autonomo nello scegliere le priorità, ma deve discutere le proprie decisioni con le strutture private dalle quali ha ricevuto un sostegno economico, ad esempio la Fondazione Gates, che è uno dei suoi massimi finanziatori insieme agli Stati Uniti e alla Germania. Queste Fondazioni, così come le aziende private, hanno interessi da difendere e profitti da implementare attraverso le campagne alle quali hanno vincolato le loro donazioni.

Queste strutture private che finanziano l’OMS sono portatrici di enormi conflitti d’interesse. Questo è un aspetto importante.

Vi è un altro aspetto che il film racconta in modo preciso. Siamo a metà degli anni ’80 e nel campo della salute entrano in scena altri due soggetti: la Banca Mondiale (BM) e il Fondo Monetario Internazionale (FMI). Oggi sono molti più i fondi della BM impegnati in ambito sanitario a livello mondiale che quelli dell’OMS. Ma la BM e FMI hanno altri e differenti obiettivi rispetto all’OMS, per la quale la salute viene prima di tutto, loro lavorano per produrre profitti da distribuire tra i propri azionisti. Il FMI negli anni ’80 e ’90 attraverso i Piani di Aggiustamento Strutturale si rivolgeva ai Paesi africani che chiedevano un prestito ponendo precise condizioni: vi do questi soldi, ma voi dovete tagliare i servizi sanitari e l’istruzione. “Per esempio, perché mai dovete mettere a disposizione il pulmino che passa nei villaggi per prendere i bambini e portarli a scuola? Devono arrangiarsi. Perché gli date e le matite e i quaderni? Se li devono procurare per conto loro. Perché nei vari villaggi ci devono essere gli ambulatori? Chiudete gli ambulatori. Fate solo un grande ospedale nella capitale. A pianterreno possono entrare tutti per le urgenze, poi per il resto delle cure invece i piani successivi di questi grandi edifici sono a pagamento.

Questa è la filosofia dei Piani di Aggiustamento Strutturale del FMI che hanno contribuito a distruggere il servizio sanitario e l’istruzione primaria che molti Paesi africani avevano avviato dopo che si erano liberati dal colonialismo. La BM si muove nella stessa identica direzione.

Quando negli anni ’90 e poi nel 2001 col Forum Sociale Mondiale, da Seattle a Porto Alegre, da Genova a Firenze, noi contestavamo queste scelte, che allora ci venivano spiegate dai missionari che in Africa ne sperimentavano i risultati, non avremmo mai pensato che quelle politiche sarebbero poi state utilizzate anche contro alcuni Paesi europei, in Portogallo e in Grecia, con la complicità della Banca Centrale Europea (BCE). Pensate che a un certo punto hanno imposto al governo greco che ogni dieci medici che abbandonavano il servizio sanitario, perché ad esempio andavano in pensione, potevano assumerne uno solo. In tal modo è stato distrutto il servizio sanitario.

Come si è sviluppato il rapporto tra neoliberismo e sanità?

Quello che ho raccontato fino ad ora mi pare spieghi bene come la sanità sia diventata un terreno di conquista per produrre profitti privati.

Nel film si ricorda che Wikileaks ha reso pubblico un file di una riunione riservata del TiSA, l’Accordo sul Commercio dei Servizi, un’intesa segreta sulla commercializzazione di sanità, istruzione, banche e trasporti alla quale stavano lavorando alcune delle nazioni più potenti del pianeta con le grandi multinazionali. In questo file, registrato durante una riunione, un rappresentante dei fondi finanziari internazionali spiega che la sanità sarebbe un ambito privilegiato per investire e ottenere enormi profitti a condizione che gli Stati, le istituzioni religiose e le organizzazioni no profit facciano un passo indietro e abbandonino il campo. Non credo vi sia necessità di ulteriori commenti.

Vorrei invece cogliere l’occasione per sottolineare in quanti e differenti ambiti si scopre quale è stata e quale è l’importanza di Wikileaks e di Assange per un’informazione onesta e corretta, anche su accordi segreti le cui decisioni ricadono sul nostro futuro. 

Torniamo al tema centrale del film.

Per il neoliberismo l’importante non è la salute, ma la malattia; più malattie e più malati vi sono e più aumentano i profitti privati. Invece più permane una condizione di salute, più si interviene sulla prevenzione, più diminuiscono le malattie e il numero di malati, più si risparmia e quindi più guadagna l’economia pubblica e più, ovviamente, perdono i privati in sanità.

Non dimentichiamoci che i privati investono solo nella cura non investono nella prevenzione. Per il pubblico al centro vi è la salute, per il privato al centro vi è la malattia.

 Quali sono i messaggi che ci lancia il film?

Il film ci manda un messaggio semplicissimo. La possibilità di cambiare le cose esiste, se ci informiamo, ci organizziamo e lottiamo. Alla fine del film l’intervento di un personaggio importante aiuta l’azione del comitato di Cariati. Ma quel personaggio interviene proprio perché è stato sensibilizzato dalla lotta dei cittadini di quel paese; l’iniziativa dal basso a volte può arrivare a sensibilizzare persone che hanno un potere di immagine e di comunicazione molto importanti e spingerle ad appoggiare la lotta in corso. Il nostro destino non è segnato. Dobbiamo però costruire organizzazione ed essere consapevoli che il conflitto sulla salute non ha confini. È un conflitto universale.

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Calp di Genova: i portuali bloccano le armi dirette verso Israele

BY LAURA TUSSI

ARCHIVIATO IN:AUTORI

Scritto da: LAURA TUSSI

Gli operai e i sindacati del porto di Genova si mobilitano in una internazionale pacifista per bloccare le armi ieri come oggi. Il Calp e altre sigle di lavoratori hanno attuato diverse iniziative di protesta e boicottaggio contro l’esportazione di materiale bellico verso Israele, in continuità con le azioni svolte in passato in occasione dei conflitti in Ucraina, in Yemen e in Vietnam.

Genova – José Nivoi ha 37 anni ed è portavoce dei Calp di Genova, il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali del capoluogo ligure. Lavora sulle banchine del porto da quando ha 21 anni. Dopo aver animato le battaglie contro le navi delle armi dirette in Arabia Saudita, con il collettivo portuale, oggi è anche sindacalista di base dell’Usb. Insieme al collega Corrado Majocco è stato invitato all’evento per la pace convocato il 2 maggio da Michele Santoro al teatro Ghione di Roma. Chiamati sul palco, i due compagni sono stati accolti con una standing ovation, segno che le lotte sociali e politiche che portano avanti sono apprezzate in tutta Italia.

Ma veniamo all’attualità, drammatica e stringente. I portuali italiani – e non solo – stanno alzando la voce contro l’esportazione di armi verso Israele e negli ultimi giorni si stanno susseguendo senza sosta scioperi, presidi e blocchi delle navi al grido di “non vogliamo essere complici della guerra”. Come già fatto in passato, gli operai si rifiutano di caricare le navi con gli armamenti. «È solo il primo passo di un percorso a sostegno del popolo palestinese», dichiara José.

calp genova

«Siamo contro tutte le guerre – prosegue –, siamo internazionalisti e quindi appoggiamo il diritto alla resistenza dei popoli oppressi e brutalizzati dal colonialismo, come i palestinesi. Siamo per lo scioglimento della Nato in quanto non abbiamo dubbi sul ruolo nefasto esercitato da questa organizzazione, che è nata e si è sviluppata per garantire il dominio dell’imperialismo USA e occidentale sul resto del mondo».

Qualche anno fa il Calp decidse di bloccare alcune navi saudite che trasportavano armi in Yemen, dove sulla pelle della popolazione si stava scatenando l’inferno di una delle tante guerre dimenticate in questi anni. «Raccoglievamo quindi un testimone che non era mai stato perduto – ricorda José –, quello lasciato dai portuali genovesi che bloccavano le armi americane dirette in Vietnam, usate per tentare, senza riuscirci, di sconfiggere l’eroica resistenza antimperialista di quel popolo».

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Oggi la guerra in Ucraina continua e la situazione a Gaza, con il genocidio dei palestinesi, fa risultare ancora meglio come alcune delle intuizioni che avevamo avuto anni prima si siano, purtroppo, avverate», prosegue José. «Da molto tempo infatti segnalavamo un pericoloso aumento di traffici di armi nei porti: non è stato difficile per noi capire che le guerre non scoppiano da un giorno all’altro, ma vengono preparate nel tempo».

La guerra tra Israele e Hamas è entrata anche nei porti italiani e internazionali. Da giorni i sindacati italiani legati ai portuali, in particolare in città come Genova, si stanno mobilitando per bloccare le spedizioni di armi via mare a Israele. “Non vogliamo partecipare al massacro”, il messaggio che si legge sui volantini di protesta in riferimento all’offensiva bellica israeliana su Gaza, che in un mese avrebbe già causato oltre 10mila morti. E manifestazioni di questo tipo sono in corso anche all’estero, dalla Spagna al Belgio, fino agli Stati Uniti.

Siamo internazionalisti e quindi appoggiamo il diritto alla resistenza dei popoli oppressi e brutalizzati dal colonialismo, come i palestinesi

“La catena logistica è necessaria ad alimentare i conflitti rifornendoli di armamenti e noi non vogliamo fare parte di questo ingranaggio”. Lo scrive in un comunicato il Calp nell’annunciare la mobilitazione nel porto di Genova per bloccare l’invio di armi a Israele. Rispondendo all’appello dei sindacati palestinesi e mobilitazione internazionale, il sindacato USB, il collettivo lavoratori portuali e altre sigle pacifiste hanno bloccato il porto di Genova. Sono gli stessi lavoratori che già bloccarono le navi della compagnia Bani dirette verso l’Arabia Saudita cariche di armi.

Circa 400 di loro da qualche giorno hanno dato vita a un presidio davanti al varco portuale di San Benigno a Genova in segno di protesta contro il conflitto israelo-palestinese e il trasporto di armi verso il Israele da parte della Zim Integrated Shipping Services (Zim), la compagnia marittima israeliana che si è messa a disposizione per trasportare materiale bellico verso lo Stato ebraico. Continueremo a seguire la situazione per capire come si evolverà e soprattutto per raccontare queste piccole grandi sacche di resistenza che, se opportunamente intessute in una grande rete, possono fare davvero la differenza.

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Info Laura Tussi

Docente, giornalista e scrittrice, si occupa di pedagogia nonviolenta e interculturale. Ha conseguito cinque lauree specialistiche in formazione degli adulti e consulenza pedagogica nell’ambito delle scienze della formazione e dell’educazione. Coordinamento Campagna “Siamo tutti Premi Nobel per la Pace con ICAN”: Rete Internazionale ICAN – Premio Nobel per la Pace 2017 per il disarmo nucleare universale.

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Moni Ovadia e Laura Tussi: musica per la pace

 BY LAURA TUSSI

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 MEI – Meeting Artisti e Etichette Indipendenti:

https://meiweb.it/2023/10/30/moni-ovadia-e-laura-tussi-musica-per-la-pace/embed/#?secret=qtTkXRlH2y

Un’iniziativa per progettare un futuro fondato sulla libertà, la giustizia, il rispetto dei diritti di tutti gli esseri umani, l’uguaglianza e i grandi principi della Costituzione e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

MONI OVADIA presenta Laura Tussi a Nova Milanese.

Moni Ovadia, alla fine dello spettacolo musicale e cabarettistico di alto spessore culturale e di impegno civile, dal titolo “Il Registro dei Peccati”, presso l’Auditorium di Nova Milanese, all’interno della Stagione Teatrale, ha ringraziato Emergency, Associazione Internazionale di medici volontari, fondata da Gino Strada, che offre cure mediche e chirurgiche gratuite a tutte le vittime della guerra, delle mine antiuomo e della povertà, senza distinzione di opinione politica, di sesso, di razza, di condizione sociale ed economica e di appartenenza culturale, politica e religiosa. Moni Ovadia ha ribadito al pubblico che Emergency rappresenta l’Italia che splende nel mondo, “perché Emergency ci da l’onore di essere Italiani e abbiamo ancora il diritto di sentirci onorati di essere Italiani”.

Moni Ovadia, in seguito, ha presentato al pubblico “Laura Tussi studiosa e ricercatrice militante e appassionata che da anni con perseveranza, abnegazione, coraggio compie un lavoro certosino, in una grande opera di creazione e ricostruzione della memoria”. Moni Ovadia ha detto ancora “Laura Tussi non smette mai di studiare ed è animata dallo spirito ebraico della ricerca inesausta, senza fine. Laura Tussi tesse la memoria per ricomporre l’infranto, per progettare un futuro fondato sulla libertà, la giustizia, il rispetto dei diritti di tutti gli esseri umani, l’uguaglianza e i grandi principi della Costituzione e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.”

MONI OVADIA PRESENTA LAURA TUSSI:

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https://youtube.com/watch?v=uORrUNGH6lg%3Fstart%3D2%26feature%3Doembed

MONI OVADIA E LAURA TUSSI presentano il libro MEMORIE E OLOCAUSTO

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Docente, giornalista e scrittrice, si occupa di pedagogia nonviolenta e interculturale. Ha conseguito cinque lauree specialistiche in formazione degli adulti e consulenza pedagogica nell’ambito delle scienze della formazione e dell’educazione. Coordinamento Campagna “Siamo tutti Premi Nobel per la Pace con ICAN”: Rete Internazionale ICAN – Premio Nobel per la Pace 2017 per il disarmo nucleare universale.Canale Facebook https://www.facebook.com/laura.tussiCanale YouTube https://youtube.com/@LauraTussi?si=vToObZGDLPkXKGAJCanale Instagram https://instagram.com/cracolicifabrizio

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Steadfast Noon: “prove” di guerra nucleare nei cieli italiani

di LAURA TUSSI

ARCHIVIATO IN:AUTORI

di LAURA TUSSI

Pochi giorni fa si è svolta ad Aviano – e in molti altri luoghi d’Italia – Steadfast Noon, una massiccia esercitazione nucleare NATO. In un momento in cui la tensione a livello globale sta raggiungendo picchi allarmanti, questo evento ha sottolineato ancora una volta le criticità e le gravi discrepanze fra la normativa – dai trattati internazionali alla stessa costituzione italiana – e la condotta delle forze armate.

PordenoneFriuli Venezia Giulia – È iniziata lunedì 16 ottobre nella base aerea di Aviano, in provincia di Pordenone, l’edizione 2023 di “Steadfast Noon”, l’esercitazione che la NATO organizza annualmente per addestrare le aeronautiche militari dei paesi membri all’impiego in un conflitto di armi nucleari. La maxi-esercitazione ha interessato fino al 26 ottobre buona parte dell’Italia, in particolare le regioni centro-settentrionali, la Puglia, la Sardegna, il basso Tirreno, il mar Adriatico e la vicina Croazia.

Le aree dei “war games” sono state interdette alla navigazione aerea; inoltre sono stati predisposti corridoi di transito per far raggiungere ai velivoli con e senza pilota le aree operative sul Tirreno dalle basi di Aviano e Ghedi (BS) – entrambe ospitano le testate nucleari ammodernate B-12-61 di US Air Force –, Amendola (FG), Gioia del Colle (BA) e Trapani-Birgi. All’esercitazione hanno partecipato tredici paesi NATO con una sessantina di cacciabombardieri predisposti all’impiego di armi nucleari

LA PACE, LE ARMI NUCLEARI E IL FRIULI VENEZIA GIULIA

Mentre la guerra mondiale “a pezzi” si amplia dall’Ucraina alla Palestina e 22 attivisti denunciano alla Procura la presenza illegale di armi di distruzione di massa a Ghedi e Aviano, arriva in Friuli Venezia Giulia il test di guerra atomica per le nuove bombe B61-12, teleguidate e a potenza variabile a mezzo del wargame Nato “Steadfast Noon”, che si è svolto nei nostri cieli dal 16 al 26 ottobre 2023).

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La Tavola per la Pace del Friuli Venezia Giulia si è fatta interprete della legittima preoccupazione della gente in proposito. Da un anno ormai ha chiesto ai Prefetti di Trieste e Pordenone notizie dei piani di emergenza in caso d’incidente nucleare previsti per il porto triestino e la base aerea friulana. Ma di questi piani non si è saputo ancora nulla. In Italia è certezza che vi siano 100 armi nucleari nella base di Aviano e di Ghedi. È talmente certo che ne scrivono tranquillamente anche i quotidiani nazionali, come Il Sole 24 Ore.

L’Italia ha ratificato il 24 aprile 1975 il Trattato di Non Proliferazione (TNP): il documento si basa sul principio che gli Stati in possesso di armi nucleari si impegnano a non trasferire armi di tale natura a quelli che ne sono privi, mentre questi ultimi – Italia compresa – si obbligano a non ricevere e acquisire il controllo diretto o indiretto di ordigni nucleari.

L’IMPIEGO DI ARMI NUCLEARI

Nell’ambito di questo programma, gli Stati Uniti mantengono la custodia e il controllo assoluto delle armi nucleari presenti sul territorio italiano. Ad oggi le bombe nucleari B61 mod 3 e mod 4 sono custodite in due località, 50 presso la base aerea di Aviano e le altre nella base di Ghedi. Gli F-16 Fighting Falcon facenti parte della 31ª Fighter Wing statunitense hanno sede presso la base di Aviano, mentre i Panavia Tornado del 6º Stormo Alfredo Fusco hanno sede a Ghedi.

L’Italia dal canto suo non ha firmato e ratificato il Trattato per la proibizione delle armi nucleari approvato il 7 luglio 2017 dall’assemblea generale delle Nazioni Unite ed entrato in vigore il 22 gennaio 2021. Anche in assenza di questa sottoscrizione, che esplicitamente ed automaticamente qualificherebbe come illegale la detenzione di ordigni nucleari, la denuncia presentata a carico di ciò che sta avvenendo a Ghedi sostiene la tesi dell’illegalità.

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E infine, sempre stando alla denuncia, mancherebbero le licenze e/o autorizzazioni all’importazione di armi visto che l’accertata presenza sul territorio presuppone necessariamente un loro passaggio attraverso il confine. Qualsiasi autorizzazione peraltro – si legge nella denuncia – confliggerebbe con l’articolo 1 della legge 185/90 che recita: “L’esportazione, l’importazione, il transito, il trasferimento intracomunitario e l’intermediazione di materiale di armamento nonché́ la cessione delle relative licenze di produzione e la delocalizzazione produttiva devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia. Tali operazioni vengono regolamentate dallo Stato secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

C’è da chiedersi come sia possibile che a fronte dell’art. 11 della Costituzione – qui siamo nell’ambito dei principi fondamentali – sia possibile la presenza di armi nucleari nel nostro territorio. O la Costituzione non vale niente ed è uno straccio per darci l’illusione di essere uno Stato civile oppure – se vale come dovrebbe, se davvero contiene principi condivisi, voluti e reali – non si capisce come mai nessun giudice si pronunci contro la presenza di armi nucleari sul nostro territorio.

Per tenere se non altro la memoria allenata, riporto qui di seguito il testo dell’art. 11 Costituzione Italiana: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

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Alex Zanotelli
IL CONTESTO INTERNAZIONALE

Nella situazione tesissima per la guerra in Ucraina e Palestina, gravi preoccupazioni ha sollevato l’esercitazione con sottomarini e missili intercontinentali delle forze nucleari russe, contrapposta all’esercitazione nucleare Nato “Steadfast Noon” con le atomiche USA ad Aviano e al porto nucleare di Trieste. L’Europa è in posizione assai delicata, con le esercitazioni che si svolgono mentre i fronti di guerra si allargano, rischiando di coinvolgere nuovamente Kosovo Serbia e Bosnia-Erzegovina. La Comunità internazionale deve lavorare per garantire la fine dei conflitti, tanto più se nucleari.

Il Friuli Venezia Giulia aveva inserito nello Statuto non ratificato dal Parlamento nazionale la contrarietà alle armi di distruzione di massa. Deve ora fare la propria parte, bandendo prese di posizione manichee e costruendo una diplomazia di Pace con le Regioni dell’Alpe Adria, anche per mezzo di una nuova Legge regionale per la Pace.

Nei giorni delle esercitazioni, al Centro Internazionale di Fisica Teorica di Miramare ha avuto luogo il Pugwash Council Meeting per un mondo libero dalle armi nucleari. Il Pugwash, organismo composto da fisici da tutto il mondo che ha ricevuto il premio Nobel per la Pace, ha fornito supporto scientifico al dialogo fra Stati per conseguire i trattati di controllo sulle armi nucleari, stracciati ora a causa della guerra in corso.

C’è da chiedersi come sia possibile che a fronte dell’art. 11 della Costituzione – qui siamo nell’ambito dei principi fondamentali – sia possibile la presenza di armi nucleari nel nostro territorio

LE RISPOSTE DEI MOVIMENTI DELLA PACE

Negli stessi giorni delle esercitazioni nucleari e del meeting, i movimenti per la pace si sono attivati con le Prefetture per l’ottenimento dei piani di emergenza in caso di incidente, attentato o atto bellico alle basi di Ghedi, Aviano e al porto di Trieste. Piani che se esistono sono secretati o risalgono a vent’anni or sono, mentre le nuova direttiva europea e la legge nazionale ne impongono riscrittura e divulgazione.

Anche il missionario comboniano Alex Zanotelli è intervenuto sulla recente esercitazione Nato che si è conclusa con un pericoloso colpo di scena. Putin ha infatti organizzato una immediata controesercitazione simulando un lancio di missili nucleari di risposta a un attacco nucleare Nato.

Alex Zanotelli ha criticato anche Putin per aver risposto alla Nato con una controsimulazione nucleare in grande stile: «È incredibile che la Russia abbia risposto con un’esercitazione sempre in chiave nucleare, tra l’altro supervisionata dallo stesso Putin, il cui obiettivo è quello principale è proprio quello di testare la prontezza delle forze nucleari nel rispondere a un attacco. È pazzia collettiva la nostra in un momento in cui si rischia davvero una guerra nucleare sia nel contesto dell’Ucraina sia nel contesto del Medio Oriente e della Palestina».

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Info Laura Tussi

Docente, giornalista e scrittrice, si occupa di pedagogia nonviolenta e interculturale. Ha conseguito cinque lauree specialistiche in formazione degli adulti e consulenza pedagogica nell’ambito delle scienze della formazione e dell’educazione. Coordinamento Campagna “Siamo tutti Premi Nobel per la Pace con ICAN”: Rete Internazionale ICAN – Premio Nobel per la Pace 2017 per il disarmo nucleare universale.Canale Facebook https://www.facebook.com/laura.tussiCanale YouTube https://youtube.com/@LauraTussi?si=vToObZGDLPkXKGAJCanale Instagram https://instagram.com/cracolicifabrizio

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Dal 4 novembre all’obiezione di coscienza: la lezione di Don Milani

Scritto da: LAURA TUSSI

Il 4 novembre si è celebrata, come ogni anno, la festa delle forze armate. In un momento in cui il mondo è funestato da tante guerre – anche se di alcune si parla più che di altre – è importante ricordare un episodio che ha visto come protagonista don Milani e che ha segnato un precedente importante per l’istituzione dell’obiezione di coscienza e, in generale, per l’affermazione di una cultura di responsabilità, di consapevolezza e di pace.


Le guerre di oggi sono combattute con le armi costruite ieri. Le armi costruite oggi alimenteranno le guerre di domani. Il disarmo – a partire da noi stessi, ossia disarmo unilaterale – è la strategia per costruire la pace. Viene quindi da chiedersi il senso, oggi che deporre le armi è una priorità, di continuare a celebrare il 4 novembre, festa delle forze armate. Fare memoria delle guerre del passato è doveroso per non ripetere gli stessi tragici errori. Ma anche ricordare le grandi battaglie pacifiste del passato lo è.

A questo proposito vorrei raccontare un episodio emblematico che ha visto come protagonista uno dei punti di riferimento della nonviolenza in Italia. Dirompente e clamorosa fu infatti nel 1965 l’appassionata risposta del parroco di Barbiana, vicino a Firenze, Don Lorenzo Milani ai cappellani militari in congedo della Toscana. Don Milani scrive una lettera a quelli di loro che avevano sottoscritto il comunicato in cui dichiaravano di considerare un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza” che è estranea al comandamento cristiano dell’amore e è espressione di viltà.

4 novembre

Pubblicata solo da Rinascita, la contraria presa di posizione criticava la retorica della patria e del militarismo. Un’esposizione pubblica, forte e coraggiosa che costa a Don Milani la denuncia per vilipendio, con una assoluzione in primo grado e il non luogo a procedere in appello, perché nel frattempo Don Milani era morto. Con lui furono denunciati un altro prete, Don Bruno Borghi, e un gruppo di laici fiorentini che avevano preso posizione pubblicamente nella vicenda e che in appello furono condannati.

Don Milani dice ai cappellani militari di avere idee molto diverse ma che lui può rispettare le posizioni contrastanti alla luce del Vangelo e della Costituzione. Soprattutto se tali posizioni appartengono a uomini che per le loro idee pagano di persona. Ma Don Milani si riferisce anche con forza alla Costituzione: non può pronunciarsi sulla storia di ieri se i cappellani vogliono essere le guide morali dei soldati.

È necessaria la coerenza, dice don Milani, per poter disobbedire: è più difficile fare il rivoluzionario che il conformista

Oltre a tutto – sostiene il parroco di Barbiana – la patria, cioè noi, paga i cappellani militari anche per questo; dunque, se manteniamo a caro prezzo l’esercito è solo perché esso difenda la patria e gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia. E allora, a maggiora ragione, urge che si educhino i nostri soldati non tanto all’obbedienza quanto piuttosto all’obiezione di coscienza.

Ogni 4 novembre si celebrano le forze armate dello Stato, ma viene da chiedersi se davvero esse agiscano con l’obiettivo di stabilire e mantenere la pace. Ma quest’anno ricorre anche il centesimo anniversario dalla nascita di don Lorenzo Milani. Per noi che siamo qui, molte cose di don Milani sono conosciute, come la lettera ai cappellani militari di cui ho parlato prima e la lettera ai giudici, con la quale Milani prova a partecipare – da Barbiana perché gravemente malato – al processo che lo vede imputato per “reati commessi a mezzo stampa” e per “istigazione a delinquere”, avendo preso posizione a favori di questi obiettori.

don milani

Scritta assieme ai suoi ragazzi di Barbiana, la lettera è divenuta negli anni il riferimento dell’obiezione di coscienza, non solo al servizio militare, per il quale la legge ha poi previsto e parificato il servizio civile sostitutivo, ma all’atto di obiezione di coscienza in generale. E rileggerla periodicamente ci permette di riconsiderare il punto a cui siamo arrivati, capire se per ciascuno di noi esistono ancora motivi per obiettare o se anche noi ci siamo lasciati affascinare dall’obbedienza.

Obbedienza che ovviamente non è in sé negativa; è anzi fondamentale anche per la stessa obiezione di coscienza: io posso disobbedire a una cosa solo se voglio obbedire a qualche cos’altro. Bisogna piuttosto riflettere sui valori a cui siamo obbedienti: quali sono quelli che abbiamo come riferimento e per rispettare i quali saremmo disposti a disobbedire, pagandone le conseguenze? Ogni tanto è bene poterli ripensare, questi valori, e confermarli o cambiarli. È necessaria la coerenza, dice don Milani, per poter disobbedire: è più difficile fare il rivoluzionario che il conformista.

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Da John Lennon a Danilo Dolci, ecco come il pacifismo contribuì a fermare la guerra in Vietnam

di LAURA TUSSI

Esattamente 68 anni fa, il Primo novembre del 1955, ebbe inizio la guerra in Vietnam, un evento tragico che provocò milioni di morti, ma che vide anche la nascita di un movimento pacifista coeso, globale, trasversale e consapevole. Ripercorriamo dunque le tappe del conflitto e delle persone – dai rappresentanti della società civile ai personaggi di spicco – che con la loro azioni contribuirono a farla cessare.

“Quando partecipavo al movimento contro la guerra del Vietnam mi sembrava impossibile che potesse avere qualche effetto concreto. Coloro che aderirono al movimento nei primi anni ’60 pensavano che quanto stavano facendo avrebbe avuto come conseguenza anni di galera e vite distrutte, per inciso, io ci sono andato vicino… Allora era impossibile immaginare che ci sarebbe stato qualche risultato. Ma sbagliavamo: i risultati sono stati innumerevoli, non grazie a quello che facevo io, ma grazie a quello che facevano migliaia e migliaia di persone in tutto il paese“.

Noam Chomsky

La guerra del Vietnam – nota nella storiografia vietnamita come guerra di resistenza contro gli Stati Uniti o anche come guerra statunitense – fu il conflitto armato combattuto in Vietnam fra il Primo novembre 1955, data di costituzione del Fronte di Liberazione Nazionale filo Comunista, e il 30 aprile 1975, con la caduta di Saigon e il crollo del Governo del Vietnam del Sud e la riunificazione politica di tutto il territorio vietnamita sotto la dirigenza comunista di Hanoi.

vietnam

Con l’incidente del Golfo del Tonchino – quando una nave militare americana dichiara di essere stata attaccata da tre torpediniere del nord del Vietnam – ebbero inizio i combattimenti. Nel 2005 verrà definitivamente appurato che l’incidente fu una montatura per fornire un pretesto per iniziare l’aggressione ordinata dall’amministrazione di Johnson. Una guerra atroce che si concluse nel 1975 con la sconfitta dei più potenti eserciti del pianeta. Ma che produsse milioni di morti tra i vietnamiti e circa 100mila vittime americane. Fu la guerra della diossina, sparsa dagli Stati Uniti in 45 milioni di litri su moltissimi villaggi e su un immane numero di cittadini vietnamiti – alcune stime parlano di 5 milioni di persone colpite.

Il Governo americano sosteneva il regime anticomunista del Vietnam del Sud sin dal 1954, dopo la sconfitta della Francia. L’opposizione pacifista alla escalation militare iniziò subito, negli Stati Uniti stessi e in tutto il mondo. In pochi mesi si formò e crebbe un vasto movimento planetario che condannava l’aggressione degli USA e solidarizzava con i vietnamiti. Un impegno di mobilitazione internazionale che caratterizzò tutti gli anni ‘60 del Novecento.

https://youtube.com/watch?v=PgDm85StSQs%3Ffeature%3Doembed

La guerra chiedeva un elevato tributo di di giovani e il Governo statunitense introdusse la leva obbligatoria per fronteggiare il Vietnam, eliminando il servizio militare volontario. All’inizio il reclutamento dei giovani studenti avveniva addirittura su basi meritocratiche al contrario: veniva arruolato chi aveva i risultati peggiori a scuola. Così la protesta dilagò negli atenei americani. I campus universitari diventano centri di mobilitazione contro la guerra e si saldarono con il movimento dei diritti civili, con le pantere di Martin Luther King e con ampi settori di intellettuali e i ceti borghesi liberali.

Molto diffusa sarà l’obiezione di coscienza. Orrori indicibili di una lunga guerra sconvolsero il mondo civile democratico, quello giovanile in particolare. Il movimento pacifista incise in maniera considerevole sulla fine della guerra e sulla crescita di una nuova coscienza civile, pacifista, democratica e antimperialista non solo negli Stati Uniti. Il ‘68 era in arrivo e avrebbe avuto nell’opposizione alla guerra contro il Vietnam – e a tutte le altre guerre – una sua ragione fondante, uno stile di vita e una prospettiva di impegno.

I campus universitari diventano centri di mobilitazione contro la guerra e si saldarono con il movimento dei diritti civili, con le pantere di Martin Luther King e con ampi settori di intellettuali e i ceti borghesi liberali

In Italia si sviluppò un movimento di lunga durata contro la guerra in Vietnam, in solidarietà col popolo vietnamita e a sostegno del movimento americano pacifista. Si svolsero grandi manifestazioni a livello nazionale, ma anche una molteplicità di iniziative diffuse sul territorio come marce, veglie, raccolte di fondi, di sangue, alimenti e medicinali e carovane della pace. Bisogna ricordare poi l’iniziativa di Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, che volò in missione di pace ad Hanoi per incontrare Ho Chi Minh, leader del Nord Vietnam.

Joan Baez fu l’icona appassionata dell’opposizione alla guerra. Fece clamore il suo viaggio del 1972 ad Hanoi per solidarizzare con il popolo vietnamita sotto le bombe dei B-52 il cui rombo finirà nel suo disco Where are you now my son. John Lennon poi nel 1969 per protesta contro la guerra restituì il titolo di baronetto alla regina. In Italia Danilo Dolci, grande e coerente figura del pacifismo mondiale e della nonviolenza attiva, educatore e protagonista delle lotte per il miglioramento delle condizioni di vita e sociali della Sicilia del dopo guerra, nel 1967 promosse la marcia per il Vietnam e per la pace che, partita da Milano, giunse a Roma accolta da 50mila persone.

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Transform – 21 Settembre: Giornata Internazionale della Pace con il centro di Rovereto per la risoluzione dei conflitti

di Laura Tussi (sito)

È sentita forte l’esigenza di educare i giovani e le nuove generazioni al rispetto dei diritti umani, alla consapevolezza e responsabilità di vivere in un mondo dove la guerra sia bandita e finalmente ripudiata.

La Giornata Internazionale della Pace è stata istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1981, con l’obiettivo di rafforzare la volontà di pace tra le nazioni e i popoli. Dal 2001 le celebrazioni per la pace sono state fissate per il giorno 21 Settembre ed è stato convenuto che questa sarebbe stata la giornata in cui sospendere tutte le ostilità e la violenza nel mondo. Nel commemorare questa importante iniziativa delle Nazioni Unite, vorremmo ricordare tutte le realtà, enti e associazioni e fondazioni che promuovono la pace in ogni sua modalità. Come il Centro per la pace di Rovereto di cui abbiamo trattato in queste nostre pagine dedicate alla nonviolenza, al disarmo e alla risoluzione di ogni tipologia di conflitto.

L’originale esperienza del centro pace di Rovereto. 

A Rovereto nella seconda metà degli anni ’80 del novecento si è costituito un gruppo ecologico che aveva lo scopo di prendersi in carico le problematiche ambientali.

Con questo gruppo si sono organizzate parecchie manifestazioni contro le centrali nucleari e le basi militari. Nel frattempo all’Università di Trento si costituisce un gruppo di studio sulla nonviolenza. Si leggono testi di Gandhi, Capitini, Dolci e si riflette su queste tematiche.

È un periodo ricco di fermenti, di lotte e di solidarietà con i popoli del mondo che si stanno ancora affrancando da dittature di stampo neocoloniale, ma siamo ancora in piena guerra fredda, con le basi Nato in Italia e i Pershing e i Cruise e le spese militari che raggiungono livelli impensabili.

Presenti i rappresentanti locali di diverse associazioni di respiro nazionale come la Lega per il disarmo unilaterale, il Movimento non violento, Magistratura democratica, Lega degli obiettori fiscali, Lega per i diritti e la liberazione dei popoli, Acli, Pax Christi. Si parla della necessità di avere un coordinamento tra tutte le associazioni e di un luogo pubblico per le attività inerenti l’educazione alla pace.

È sentita forte l’esigenza di educare i giovani e le nuove generazioni al rispetto dei diritti umani, alla consapevolezza e responsabilità di vivere in un mondo dove la guerra sia bandita e finalmente ripudiata. 

L’atto costitutivo del comitato di queste associazioni per la pace venne sottoscritto e il passaggio successivo era l’ottenimento da parte del Comune di un locale da adibire in modo permanente ad attività di educazione alla pace e dove lasciare il materiale da consultare.

In seguito viene individuata una zona centrale della città.

Presso le scuole Paolo Orsi.

Due aule vengono separate dal resto dell’edificio e dotate di un ingresso autonomo.

Un’aula viene adibita a sala riunioni, l’altra a zona segreteria e biblioteca di consultazione con tavoli e postazioni computer. Si procede alla catalogazione del materiale che successivamente sarà messo online.

Il posto è veramente bello e significativo in posizione centrale e all’interno di un edificio scolastico. Ha così inizio la lunga storia del centro pace di Rovereto. Cominciano i corsi di aggiornamento per insegnanti in collaborazione con il centro psicopedagogico per la pace di Piacenza diretto da Daniele Novara e con Mario Bolognese.

I fine settimana, il centro pullula di insegnanti di scuole elementari e medie provenienti da tutto il territorio provinciale. Il centro è attento e pronto a accogliere le istanze che provengono dal territorio e all’inizio degli anni ‘90 è tra i primi ad accorgersi della presenza nella città dei primi migranti, perlopiù giovani provenienti dal Maghreb. Forte la necessità di risolvere in modo nonviolento i primi conflitti tra i cittadini di Rovereto e i giovani migranti. E così si organizzano i primi incontri con gli obiettivi da porre in contesti atti al dialogare.

Il centro diventa anche un luogo di incontro dove i migranti possono trovare qualcuno con cui scambiare una parola, chiedere un’informazione, fare una telefonata di lavoro o per la ricerca di un alloggio, tradurre qualche documento.

Partono i primi corsi di italiano per stranieri tenuti da insegnanti volontarie. Sono esperienze locali, per cui si allacciano collaborazioni con altre realtà italiane in particolare con le città di Bologna, Modena, Reggio Emilia ritenute all’avanguardia su queste esperienze e problematiche. Con l’arrivo dei primi bambini stranieri nel centro si attivano i corsi di aggiornamento per gli insegnanti elementari.

Ma gli anni ‘90 sono anche gli anni delle guerre in Ex Jugoslavia, delle mine antiuomo, della nascita di Emergency, dell’ obiezione fiscale, delle spese militari, fino ad arrivare alla seconda guerra del Golfo.

Il comitato delle associazioni per la pace che gestisce il centro di educazione alla pace passa da un’emergenza all’altra, quasi non vi è tempo per una programmazione propria, anzi qualcuno accusa di inseguire solo le emergenze. Tra gli obiettivi prioritari, il coinvolgimento del maggior numero di realtà, ma questo non sempre risulta facile.

Soprattutto vi è difficoltà ad aggregare il mondo cattolico, i giovani delle parrocchie. 

Anche il primo incontro con Gino Strada in una saletta, con un pubblico di poche persone: Emergency era ancora agli inizi.

Gli incontri con tanti testimoni di pace del nostro tempo che le occasioni portarono al centro. In seguito la grande manifestazione organizzata per fare fermare la seconda guerra del Golfo nel 2001. Più di 3000 persone salirono da Piazza Rosmini al colle di Miravalle per manifestare contro l’ennesima guerra coloniale.

Non si riuscì a fermare la guerra, ma insieme tante persone avevano capito che la prima vittima delle guerre è la verità.

L’invasione dell’Iraq viene ugualmente vissuta con le sue dottrine di mistificazione come ‘guerra preventiva’ e ‘guerra al terrorismo’ e ‘stati canaglia’ e ‘operazione antica Babilonia’.

Dal 2002 in poi il centro viene trasferito in una serie decentrata con l’accesso da una via trafficata e è difficile dal poter essere ristrutturata.

La sede è soprattutto fuori mano e il comitato attraversa un periodo critico e è in una fase di transizione: già nella primavera del 2011 attendono due nuove problematiche come i referendum sull’acqua e sulle centrali nucleari e la guerra in Libia con il carico di migranti che ben presto arrivano in Italia e a Rovereto. I profughi e i richiedenti asilo. Scoppia subito la polemica cavalcata anche da alcuni partiti e è ora di riprendere l’impegno, il lavoro non manca. Le nuove sfide sono ora di crescita, come i gruppi di acquisto solidale, i migranti, le lotte per i diritti di cittadinanza e le seconde generazioni, i beni comuni, l’ambiente. E su questo nel centro pace stanno lavorando ancora oggi a pieno ritmo.

Transform, Organo Sinistra Europea: https://transform-italia.it/21-settembre-giornata-internazionale-della-pace/

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Secondo il doomsday clock mancano 90 secondi alla fine del mondo

DI FRANCESCO BEVILACQUA – italiachecambia.org 

 Il doomsday clock, l'”orologio dell’apocalisse”, ci indica che mancano solo 90 secondi alla fine del mondo. Insieme all’attivista e saggista Laura Tussi proviamo a capire come funziona questo orologio e soprattutto qual è lo scenario dal punto di vista bellico e geo-politico – ma anche da quello ambientale, sanitario, sociale – che contribuisce a determinare questo inquietante conto alla rovescia.

“Il mondo è fottuto, vero? Posso dirvi che qualcosa non va, manca un minuto a mezzanotte”

Così cantano i rapper inglesi Snowy e Jason Williamson nella loro Effed. Ma perché mezzanotte? Il riferimento dei due artisti è uno dei tanti che nella storia della musica e del cinema hanno riguardato il doomsday clock – letteralmente “l’orologio del giorno del destino”, con destino inteso in senso fortemente negativo –, un progetto lanciato nel 1947 dalla rivista Bulletin of the Atomic Scientists, a sua volta nata a seguito delle catastrofi nucleari di Hiroshima e Nagasaki.

COME FUNZIONA IL DOOMSDAY CLOCK

Il doomsday clock indica quindi simbolicamente quanti minuti mancano alla mezzanotte, ovvero alla fine del mondo. Dal 1947 a oggi le lancette sono state spostate molte volte, sempre in base ad avvenimenti storici che hanno allontanato o avvicinato il rischio di un’apocalisse nucleare. Inoltre da qualche anno vengono contemplati in questo macabro conto alla rovescia anche altre variabili, come le azioni umane che contribuiscono ad aggravare la crisi climatica.

«Non passano giorni senza cui il presidente ucraino, il presidente russo e quello degli Stati Uniti non lancino al mondo intero proclami di minaccia sulla catastrofe globale, con prese di posizione fisse, paranoiche, psicotiche sul first use nucleare, di dettami basati sulla deterrenza schizoide tra le superpotenze circa la fine di tutto, ossia l’estinzione, o peggio l’annientamento dell’umanità, del genere umano nella sua interezza e delle specie animali e vegetali», osserva Laura Tussi, attivista per il disarmo e la nonviolenza, saggista e collaboratrice di Italia Che Cambia a cui abbiamo chiesto di parlarci meglio del doomsday clock.

QUANTO MANCA ALLA FINE?

Come detto, dal 1947 a oggi le lancette sono state spostate molte volte. Ad esempio, lo scoppio della guerra in Vietnam ha avvicinato la fine del mondo di 5 minuti, mentre la caduta del Muro di Berlino l’ha allontanata di 4 minuti. Il penultimo aggiornamento è avvenuto nel 2020, quando il riarmo nucleare, la pandemia di Covid e la mancanza di politiche di contrasto ai cambiamenti climatici hanno provocato uno spostamento in avanti di 20 secondi.

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Arriviamo dunque a quest’anno: secondo il doomsday clock oggi, nel 2023, siamo a soli 90 secondi dalla mezzanotte nucleare. A provocare il nuovo aggiornamento – +10 secondi – è stata naturalmente la guerra in Ucraina, con il coinvolgimento dei reattori nucleari di Černobyl’ e Zaporižžja, ma anche le minacce della Corea del Nord e le catastrofi climatiche degli ultimi mesi. «Un tempo mai registrato dopo Hiroshima e Nagasaki», osserva Laura Tussi. «Un tempo mai registrato neanche in piena guerra fredda durante la congiuntura salvifica di Kennedy, Krusciov e Papa Giovanni XXIII, in cui mancavano sei minuti dalla mezzanotte atomica».

«Nel complesso – prosegue Laura – possiamo dire che l’umanità intera ormai ha perso il diritto alla felicità; perché il genere umano ha il diritto e il dovere di vivere senza il terrore della scissione nucleare, di vivere felice senza il rischio dell’ecatombe e dell’escalation atomica. L’ONU dovrebbe applicare il diritto alla pace che è già suggellato nel diritto internazionale e incardinato in esso con i documenti e i trattati internazionali come l’accordo TPAN/TPNW per l’abolizione delle armi nucleari, le Carte della Terra, le Cop per il clima, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani».

IL FUTURO DELL’UMANITÀ

Vi saranno nuovi spostamenti delle lancette? Se sì, in che direzione? Il 2026 rischia di essere un anno cruciale: il 5 febbraio scadrà infatti il trattato sulla riduzione delle armi nucleari firmato dagli allora presidenti di Stati Uniti e Russia, Obama e Medvedev. Fra l’altro la Russia, a partire dal 21 febbraio di quest’anno, ha deciso di sospendere momentaneamente la sua adesione al trattato.

«L’umanità sia nel bene che, purtroppo, nel male è caratterizzata dalle sue guerre, i suoi massacri, le stragi, i conflitti armati e tutta la distruzione che ha apportato nella storia», riflette Laura Tussi. «Tuttavia è già di per sé stessa portatrice di un valore grande di saggezza e di esistenza intelligente e intellettiva, presente a livello planetario nell’universo. Noi ragioniamo e pensiamo e sogniamo. Eppure questi 90 secondi che ci separano dalla mezzanotte nucleare farebbero rabbrividire scienziati come Einstein e Russell e anche intellettuali come Carlo Cassola, che con il suo rivoluzionario La rivoluzione disarmista prevedeva un tempo minimo di esistenza e sopravvivenza dell’umanità dopo gli anni duemila».

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MEI, il meeting di artisti indipendenti che rifiutano le logiche commerciali

di Laura Tussi (sito)

Una musica viva, responsabile, attenta a quello che succede nella società e lontana dalle logiche commerciali del circuito mainstream. È quella che promuove il MEI, il meeting degli artisti indipendenti che organizza momenti di incontro e di confronto per far conoscere al pubblico chi canta e suona pensando più al cuore che al portafogli. In attesa del prossimo appuntamento, previsto per il 6, 7 e 8 ottobre a Faenza, ne parliamo con il presidente Giordano Sangiorgi.

RavennaEmilia-Romagna – Giordano Sangiorgi è presidente – o meglio ancora patron – di una realtà molto creativa, ricca socialmente e culturalmente: il MEI, meeting delle etichette e degli artisti indipendenti, che si svolge a Faenza, in Romagna. Il MEI è appunto un meeting, un incontro, che si svolge allo scopo di “sostenere, promuovere e favorire la crescita e la diffusione di una cultura musicale indie ed emergente, per contrastare la massificazioni che si sta avendo in questo comparto”.

Giordano, il MEI si occupa solo di musica oppure tratta anche di altre forme di arte?

Cerchiamo di mantenere il focus sulla valorizzazione della musica indipendente ed emergente italiana alternativa alle piattaforme multinazionali del disco, del digitale e dei live per dare chanche a chi lavora a progetti innovativi originali e inediti in ambito musicale. Insieme alla musica spesso incrociamo i temi dell’innovazione tecnologica, della tutela dei diritti, del sostegno al sistema culturale italiano sui quali interveniamo con il nostro circuito del mondo associazionistico come il Coordinamento Stage & Indies che rappresenta la filiera delle piccole realtà della musica, AudioCoop, che comprende circa 270 piccoli produttori discografici indipendenti e altre realtà.

Spesso siamo attenti però ai temi sociali e civili perché riteniamo che la musica, attraverso i testi e le melodie di note musicali, debba servire anche per farci riflettere sul contesto sociale nel quale viviamo. È un ruolo della cultura e della musica, che non fa solo da semplice intrattenimento, che riteniamo indispensabile.

Come si unisce all’interno e all’esterno del MEI l’impegno musicale con quello sociale?

Facilmente, perché al contrario delle canzoni che ascoltiamo proposte dalle multinazionali nelle principali tv e radio in Italia e sulle principali piattaforme, a noi arrivano tante canzoni che si occupano di temi sociali e civili e, sulla base di questo, lavoriamo a contest e palchi che le valorizzino.

Il gender gap femminile nel paese e nella musica, le canzoni contro le morti sul lavoro, l’impegno in musica contro le mafie, i brani che sensibilizzano sui temi green, quelle sui diritti umani e tanti altri temi ci portano poi a concertare naturali momenti di incontro tra musica e temi sociali e civili perché tutte queste istanze arrivano dal basso. Il 27 settembre a Bologna ad esempio abbiamo organizzato la finale di Onda Rosa Indipendente, un contest che dal 2011 valorizza la scena musicale femminile spesso tenuta ai margini del mercato musicale mainstream.

mei23
Cosa significa che il MEI è il meeting degli indipendenti? Indipendenti da chi e da che cosa e perché?

Significa fare da soli, credere in un progetto e autofinanziarselo e darsi da fare perché trovi il riscontro che merita. Così è nato il boom della discografia indipendente in Italia nella prima metà degli anni ’90 dopo i primi vagiti degli anni ’60, ’70 e ’80: una gran parte di artisti si è rotta le scatole di aspettare che a decidere di pubblicare un album e a farlo passare in tv fossero degli antichi discografici delle major a Milano e degli storici funzionari della Rai a Roma e ha deciso da ogni parte d’Italia di autoprodursi le proprie canzoni.

Da lì è nata l’esplosione delle posse con il rap in Italia, tutto autoprodotto, e il boom delle etichette indipendenti, in gran parte votate all’alternativa rock e cantautorato: fu un vero e proprio boom di vendite. Un pubblico enorme in Italia che aspettava finalmente, in ritardo di vent’anni rispetto ai paesi avanzati, di avere un circuito alternativo e indipendente di musica fatto di produzioni, artisti e band, negozi di dischi, rock club, radio, riviste, fanzine e tutto quanto girava intorno al mercato alternativo che finalmente aveva un suo grosso bacino che poteva sostenerlo.

Riteniamo che la musica, attraverso i testi e le melodie di note musicali, debba servire anche per farci riflettere sul contesto sociale nel quale viviamo

Avete molti progetti futuri? Quali sono i più importanti?

Stiamo ragionando sul tema complesso della digitalizzazione del mercato sia in termini di discografia che di live, che di diritti, che di media. È un tema complesso e difficile perché siamo di fronte a vere e proprie potenze giga-capitaliste e monopoliste mondiali; se non si interviene con urgenza si rischia che il mercato globale della musica resti nelle mani di dieci persone in tutto il mondo.

Quali sono le nuove idee innovative proposte per il vostro pubblico così ampio e variegato? 

Per il pubblico l’ascolto verso le nuove proposte sconosciute, per gli artisti quello di essere sempre più preparati a un mercato che darà sempre meno spazio alle proposte alternative al mainstream piatto che passa sulle piattaforme digitali, sempre uguale e banale per massimizzare i profitti.

Che posto occupano e che ruolo giocano i giovani nel MEI? 

Sono il 90% del cartellone di musica dal vivo che proponiamo.

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