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Esperienze di attivismo: dialoghi con Laura Tussi

Attivismo di pace e nonviolenza

Esperienze di attivismo: dialoghi con Laura Tussi

Lavorare in rete, tessere complicità e punti di forza con tutti i compagni di viaggio in cammino verso la pace e la nonviolenza
Fabrizio Cracolici

Laura Tussi e Fabrizio Cracolici - PeaceLink

Intervista di Fabrizio Cracolici a Laura Tussi

L’importanza degli amici e compagni di viaggio per migliorare la realtà. Raccontati.

 

La mia esperienza di attivismo per la pace è nata a partire da fondamentali punti convergenti: un contesto sociopolitico dinamico e attraente, una pratica e un’attitudine verso un impegno disinteressato, una disposizione all’apprendimento e all’azione nonviolenta condivisa e una modalità di intervento operativa e non burocratica.

Con tanti compagni di viaggio, ci siamo dovuti coordinare per rispondere a questa sfida che era più grande di noi: l’impegno per migliorare la nostra realtà.

E ci siamo riusciti impegnandoci intensamente, ma lentamente, quotidianamente, senza precipitarci nel darci delle strutture organizzative, accettando compiti e responsabilità enormi con la convinzione che insieme avremmo potuto affrontarli con leggerezza. Abbiamo inventato programmi di formazione, fatto ricerche, recuperando memoria storica, prodotto materiale educativo, realizzato laboratori, seminari, incontri e presentazioni in pubblico.

 

Il lavoro in rete per l’attivismo di pace nel tessere relazioni e complicità costruttive: quali sviluppi comporta?

 

Il lavoro in rete per l’attivismo di pace è un modo di fare le cose che presuppone il mettersi a tessere relazioni, apprendimenti, complicità avanzando nella realizzazione di uno spazio comune, aperto e diversificato dove si possono sommare nuove iniziative, proposte e impegni. Il lavoro in rete per la pace presuppone il dedicare particolare attenzione al processo di costruzione degli spazi di incontro ed azione comune e non alla struttura organizzativa, la quale diventa secondaria e funzionale alle dinamiche dei processi individuali e dei percorsi collettivi.

Il fattore dinamizzante del lavoro attivista è trainato da obiettivi e traguardi strategici e non dal lavoro in rete in se stesso. Il senso di una rete non consiste nel rivolgersi al proprio interno, nel ripiegarsi su se stessa, ma è piuttosto in ciò che si fa verso l’esterno: qui sta la sua efficienza e la sua efficacia.

 

Il rispetto, la valutazione e la valorizzazione delle differenze. Quale importanza hanno?

 

Lavorare in rete per l’attivismo di pace presuppone, per quanto detto in precedenza, il rispetto, la valutazione e la valorizzazione delle differenze e delle diversità insite e implicite in ogni attivista e soggetto coinvolto. Queste costituiscono un fattore di rafforzamento, nella misura in cui si rispettano e si utilizzano senza imporre determinate peculiarità a discapito di altre. Per questo sono importanti il dibattito, la pianificazione e la strutturazione di obiettivi e azioni, così come la specializzazione degli incarichi, per rendere possibile la complementarità di sforzi e capacità, senza escludere, senza esclusioni e ostracizzazioni di sorta.

 

Accordi e disaccordi: qual è il cammino che dobbiamo imparare a percorrere?

 

Non dobbiamo dare per scontato che tutte le persone appartenenti a organizzazioni attorno a un medesimo proposito generale siano già completamente d’accordo. Occorre promuovere le opere di espressione di tutte le idee e visioni per trovare quelle convergenze che danno un’identità all’impegno, ma anche per conoscere le divergenze.

Un disaccordo trascurato può tradursi in fattore di conflitto che scoppia proprio per essere stato tenuto in uno stato di tensione latente per molto tempo. Troppo tempo.

E può diventare un fallimento.

Per questo, bisogna sforzarsi di trovare tutti i punti di convergenza possibili, cercando di costruire consensi di base che siano inclusivi, procedendo per accordi minimi fondati sul criterio che nessuno ha tutta la ragione né tutto il torto e occorre sempre prestare attenzione a quella parte di accordo che possa tenere insieme le varie posizioni. Promuovere una dinamica e uno spirito di apprendimento e azione reciproco implica una disposizione a condividere ciò che ognuno conosce, ma anche una disponibilità ad ascoltare e comprendere quello che altre e altri sanno: le progettualità, le idee, le istanze innovative.

 

Che significa condividere esperienze?

 

È importante perciò un’azione riflessiva critica e autocritica, che renda possibile non solo uno scambio di descrizione o racconto delle esperienze particolari, ma conduca a una condivisione degli insegnamenti che le esperienze stesse hanno lasciato. Questo compito, frutto di un processo di sistematizzazione è fondamentale, poiché permette la costruzione di un pensiero proprio condiviso a partire dai contributi di ognuno.

In tal senso, il lavoro in rete per l’attivismo di pace significa la costruzione di condizioni e disposizioni per l’apprendimento e l’azione nonviolenta.

Creare di fronte a ogni contesto, un ambito teorico che permetta la produzione di una conoscenza critica del vissuto: delle sue caratteristiche, interrelazioni, radici e esigenze. È molto importante promuovere processi e meccanismi di accumulo dell’esperienza: utilizzare registri e socializzare memorie di quanto è stato realizzato, riassumere gli accordi, lasciare una testimonianza delle valutazione dei progetti. Molte volte non compiendo tali operazioni si vanno a ripetere errori già fatti. Non si costruiscono nuovi gradini dai quali ripartire per rilanciare nuove sfide. Questa è la base per un processo di sistematizzazione delle esperienze, inteso come appropriazione critica del processo vissuto, per ricavarne i propri apprendimenti e le azioni specifiche su una determinata attività, e su molteplici iniziative in atto.

 

Il processo di attivismo non è lineare, né regolare, ma è asimmetrico e variabile. Perchè?

 

Il processo di costruzione del lavoro in rete per l’attivismo non è lineare, né regolare, ma è asimmetrico e variabile.

È fondamentale mantenere una dinamica comunicativa molto intensa, che alimenti la possibilità di restare in contatto, di apportare e ricevere contributi utilizzando tutte le forme e i mezzi possibili: scritti cartacei e elettronici, incontri personali, assemblee, riunioni, incontri, webinar per accomunare avvenimenti e socializzare proposte e decisioni. Occorre stare bene attenti: tutto ciò che si pratica deve essere trasparente nei confronti del collettivo, senza temere di evidenziare gli errori e le difficoltà.

Non può esistere lavoro per l’attivismo di pace se non è fondato sulla fiducia reciproca. Ma la fiducia non si concede gratuitamente, la fiducia si costruisce come parte di una relazione, di una sinergia, di un accordo e persino di modalità di affetto e sentimento che accomunano su ideali condivisi.

L’onestà, la franchezza e la disposizione alla critica consolidano le relazioni di una rete. Considero necessario poter contare su forme e istanze di animazione e coordinamento perché l’attivismo di pace non funziona da solo, ma come un prodotto di iniziative, proposte, relazioni, accordi e disaccordi che possono diventare strategie d’azione.

Quanto più distribuiti sono i compiti di animazione e coordinamento, con la maggior ripartizione possibile delle responsabilità, tanto più il lavoro in rete sarà dinamico e appartenente a tutti coloro che vi partecipano. Tuttavia avere linee guida o punti di riferimento è fondamentale per poter contare su legami di riferimento comuni. Legami forti, condivisi, di stima, amicizia, amore.

 

Legami forti, condivisi, di stima, amicizia, amore: legami di pace?

 

 

Credo nella relazione orizzontali, democratiche e reciprocamente esigenti, dove ognuno contribuisca in parità di condizioni, ma dove esistono anche dei ruoli di direzione, animazione, orientamento, articolazione e decisione.

Nel lavoro in rete circolano anche relazioni di potere, come in ogni ambito della vita. Ma queste relazioni di potere non devono essere le stesse che predominano nelle nostre società capitaliste, inique, escludenti, autoritarie, emarginanti e sopraffatte dal pensiero unico neoliberista. Possono essere relazioni di potere democratiche, sinergiche ovvero dove il potere di ognuno alimenti il potere degli altri e delle altre e dell’insieme nel suo complesso.

Relazioni di amore e legami di pace.

Dove le capacità si amplificano allo stesso modo per tutti e non solo per un gruppo che esercita e impone le sue decisioni.

Relazioni dove l’unione delle nostre capacità collettive offrano come risultato maggiore possibilità di azione di quelle che avremmo avuto singolarmente e grazie alle quali usciamo dall’incontro e dall’incarico arricchite e arricchiti da nuove risorse utili per affrontare i nuovi problemi e le complesse sfide.

 

La nostra crescita come persone, società, collettività e umanità. Tue riflessioni?

 

In sintesi l’attivismo implica una cultura e una visione di trasformazione e espressione. Per questo possiamo parlare della rete per la pace come di una cultura organizzativa. Ma non solo come nozione generale e teorica, ma come creazione quotidiana, che attraverso gli spazi di vita, la quotidianità dei rapporti e dell’esistenza, chiede di trarre da noi stessi il meglio che abbiamo, contribuendo così alla nostra stessa crescita come individui, come società, come collettività e umanità.

In tal modo, potremmo essere capaci di trasformarci come persone, nella misura in cui ci vedremo coinvolti in processi trasformatori delle relazioni sociali, economiche, politiche e culturali del contesto nel quale ci è toccato vivere.

 

Uniti affrontiamo le sfide globali della nostra epoca. Per arrivare dove?

 

Le sfide della nostra epoca sono immense e vanno oltre la lotta per la giustizia, l’equità, la pace, i diritti umani.

Questo XXI secolo, segnato da contraddizioni e dinamiche planetarie, marcato dal predominio di un modello economico, sociale, politico e culturale non universalizzabile, non sostenibile, chiede anche a quanti credono che “un altro mondo sia possibile” di lavorare con un’altra cultura politica e di costruire relazioni di potere non prevaricatrici, ma orizzontali, condivisibili e arricchenti, differenti in tutti i terreni in cui ci troviamo. Con un’altra etica, centrata sull’essere umano e una coscienza planetaria, il lavoro per la pace può diventare un’opzione efficace e efficiente per realizzare i cambiamenti a livello locale e globale.

Dal lavoro comunitario, con l’organizzazione settoriale, il consolidamento delle comunicazioni elettroniche con tutto il pianeta, l’articolazione di organizzazioni, istituzioni e movimenti sociali, il lavoro in rete si presenta come un’opportunità significativa per affrontare l’esclusione sociale, l’emarginazione, il disagio fisico e psichico, le difficoltà esistenziali e costruire cittadinanze globali e locali in qualunque angolo del pianeta.

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Arrivederci Piergiorgio! Arrivederci Direttore!

Ci ha lasciati Piergiorgio Cattani, Direttore di UNIMONDO

Arrivederci Piergiorgio! Arrivederci Direttore!

Viviamo un misto di dolore per la tua improvvisa partenza e di gratitudine per aver camminato insieme per tanti anni godendo della tua amicizia, competenza e insaziabile amore per la vita. Siamo vicini alla tua famiglia, ai tanti che ti hanno voluto bene.

Arrivederci caro Pier, Piergiorgio.

Viviamo un misto di dolore per la tua improvvisa partenza e di gratitudine per aver camminato insieme per tanti anni godendo della tua amicizia, competenza e insaziabile amore per la vita. Siamo vicini alla tua famiglia, ai tanti che ti hanno voluto bene. Siamo sconvolti ma consolati dalla tua vicinanza, anche adesso che fisicamente non ci sei. Nel nostro impegno per un mondo più equo e solidale continueremo sulle strade tracciate insieme, anche quando le difficoltà sembreranno insormontabili.

Perché ci hai sempre fatto capire che “niente sta scritto”.

Arrivederci Piergiorgio!

Gli amici e colleghi di Fondazione Fontana e Unimondo.

I collaboratori presenti e passati della tua redazione hanno voluto lasciarti alcuni ricordi: 

“Caro Piergiorgio, caro Direttore, Ti scrivo direttamente perché sono certo che, ovunque tu sia, mi leggerai. La rete internet dell’anima per uno come te, che ha dato linfa intellettuale e morale alla vita di tante persone, non si spegne mai. Non ci siamo mai incontrati di persona e in questo momento il rammarico é forte. Colpa della pandemia che da troppo tempo impedisce movimenti e incontri, o, forse, del “maktoub” (il destino) come prevale in un sentimento diffuso nella cultura araba del Maghreb, Regione dalla quale ti scrivo.  “Maktoub” é anche la tua improvvisa partenza verso nuovi lidi, che rattrista il cuore, ma che, sono certo, nel tempo rinfrancherà lo spirito, dei tanti che come me, non ti hanno conosciuto di persona, ma potranno usufruire di un lascito enorme: i tuoi scritti, i tuoi pensieri, le tue parole. In un periodo in cui c’é chi sostiene che gli anziani non sono più produttivi, sorrido riconoscente, quando penso che, dopo un primo articolo per Unimondo, che ti inviai circa 1 anno e ½ fa, non ti soffermasti alla mia età di pensionato settantenne, ma mi spronasti a continuare il racconto dell’area nord africana nella quale vivo. Non ci fu bisogno di tante parole fra di noi: l’intuito da Direttore ti fece capire subito il mio desiderio di porre in prosa quanto la mia decennale esperienza lavorativa e umana in questa area del mondo, aveva accumulato.Cosi é stato, e mi hai accolto nella redazione di Unimondo. Da allora é nata anche un’amicizia epistolare durante la quale non mi sono mai sentito “ vecchio”, ne , tanto meno, ho mai percepito la tua “disabilità” fisica, incapsulata come era in una vivida intelligenza e in una sottile ironia.  Il sapere porsi senza sovrapporsi. Arrivederci caro Direttore. Con affetto”. Ferruccio Bellicini

“Caro Direttore,proprio oggi le parole, queste nostre compagne di vita, mi hanno abbandonata. Avrei voluto scrivere qualcosa di te, per te, ma non riesco a dare forma al senso di vuoto nel saperti partito.È come se mi avessero rubato quella penna che tu, con pazienza e dedizione, mi stavi insegnando ad usare.Scrivere è un lavoro da artigiani. E tu mi stavi insegnando questo nobile mestiere, dandomi ciò che io per prima ho spesso mancato di avere: fiducia.Perché se c’è una cosa di te che ho sentito e ammirato fin dalla prima lettera è la tua fiducia per gli altri, di più, la tua fiducia per la vita.Oggi voglio pensare che gli incontri che facciamo non sono “per caso” e perciò ringrazio il tuo, il nostro giornale che ci ha fatti incontrare. Perché incontrare te è stato incontrare un esempio di come la vita vada vissuta pienamente, nonostante tutto. Non potrò più dirti grazie di persona, ma spero che il mio grazie ti arriverà, ovunque tu sia.Fai buon viaggio Direttore, le tue parole rimarranno scritte nei miei pensieri”. Maddalena D’Aquilio

“Piergiorgio Cattani non c’è più. Chiunque abbia vissuto a Trento sa bene chi fosse: un giornalista, un intellettuale; una voce importante, che aveva saputo farsi udire nonostante le difficoltà di espressione dovute alla malattia, la distrofia muscolare di Duchenne: patologia degenerativa che colpisce circa 6000 persone in Italia (e ne coinvolge ancora di più, tra parenti e sanitari). Se n’è andato all’improvviso, tra lo stupore di chi gli voleva bene e lo ammirava per la caparbietà e la lucidità di pensiero. Uno stupore che è autentica impresa, se si considera che Piergiorgio doveva essere già morto, e da tempo. Lo aveva raccontato lui stesso nel libro “Guarigione, un disabile in codice rosso” (Il Margine, 2015), lettura che consiglio. Chi è affetto da distrofia muscolare di Duchenne, infatti, raramente arriva ai 44 anni. Eppure, lui ci aveva illuso che fosse assolutamente normale e che potesse restare con noi per tanti anni ancora, alla faccia delle previsioni. Da parte mia resta la gratitudine per un uomo che mi ha indicato una direzione: fu lui, quand’ero all’università, ad avvicinarmi al giornalismo; passione che ha le sue radici nell’affetto per mio nonno Felice, anch’egli giornalista, ma che fino a quel momento era rimasta sopita. Quello che ha trasmesso a me sono sicuro lo abbia trasmesso a tanti altri, perché Piergiorgio era così: un uomo tutt’altro che involuto e ripiegato su se stesso come quel corpo martoriato, ma anzi proteso verso la comunità. Una comunità che ha saputo servire in molti modi: Unimondo.org, il quotidiano Il Trentino, l’attivismo politico; o forse nello stesso modo: con la fatica dello studio e l’entusiasmo di condividere con gli altri ciò che si è appreso. Se fosse qui, sono sicuro che riderrebbe di questo mio ricordo. Mi scriverebbe in privato per prendermi in giro. Non accadrà: gli uomini passano. A chi rimane tocca tenere viva la memoria e farsi carico delle battaglie”. Omar Bellicini

“Un abbraccio al grande Piergiorgio. Una preghiera”. Paolo Merlo

“Non so dirti quanto tu sia stato importante per me, un amico, un punto di riferimento e un esempio in tutti questi anni di lavoro assieme in quella piccola grande casa che è Unimondo. Una delle prime persone ad aver avuto fiducia in me e per questo non ti ringrazierò mai abbastanza. Mi mancherai Piergiorgio, è stata davvero una fortuna conoscerti”. Anna Toro

“Ogni tanto venivo a casa tua e parlavamo per un’ora. Ricordo l’accoglienza allegra dei tuoi genitori e le chiacchiere a tutto campo. Io ti chiedevo soprattutto dei tuoi studi in filosofia e dei libri che avevi scritto. Eri soprattutto tu, però, che mi facevi domande: ti informavi sul mio punto di vista in materia di religione, mi chiedevi cosa ne pensassi della politica italiana, della politica internazionale, della mia generazione, dei miei studi. Avevi solo dieci anni più di me, ma eri come quei personaggi illuminati che compaiono nei libri, quelli che ti aiutano a guardarti intorno e capire come funziona la società. Mi piace pensare di essere stato speciale, ma la verità è che facevi così con tutti. Nonostante tutte le difficoltà, usavi la tua libertà per dare fiducia a giovani insicuri, costruire relazioni umane e avviare progetti entusiasmanti.Ti dobbiamo moltissimo”. Lorenzo Piccoli

“Ciao Piergiorgio, vorrei dire, dirti e raccontare di te così tanto che non so da dove iniziare.Molti di noi vivono di parole… le mie, grazie a te, sono diventate più sicure e autentiche. Eri, sei, un maestro che sa essere rude, un uomo dal carattere spigoloso e mai domo, sei, su tutto, un amico sincero e dolcissimo, un amico vero. Sursum corda Pier! E ti prego, continua a seguirci, ne abbiamo bisogno. Grazie di tutto”. Fabio Pizzi

“A te, Piergiorgio, ci siamo visti, scritti poco ma sono stati incontri in presenza e/ o telematici di una grande profondità e scambio di idee e progetti insieme. Grazie perché sei stato per me un riferimento nella pedagogia della Curiosità come mi ha insegnato Paulo Freire. Grazie per il camminare insieme nel nostro modo di fare giornalismo indipendente, partecipativo e pieno di cittadinanza planetaria!I ragazzi dell’Agenzia di Stampa Giovanile ti ringraziano insieme a me per la tenerezza e gli insegnamenti!un abbraccio planetario”. Paulo Lima

“Non si é mai preparati a ricevere queste notizie. Ce ne sono tante di frivole e ridondanti che si ripetono sui giornali, tanti avvenimenti uno uguale all’altro. Questa é una di quelle che paralizza, che traccia una linea indelebile tra il passato e il presente. Quando mi é stato detto che Piergiorgio ci aveva lasciato non ci volevo credere. Come é possibile. Cosí giovane, colto, audace e sempre positivo con chiunque. Come tanti altri, credo, ci ho messo del tempo a capire che era successo veramente. Piergiorgio non ha mai voluto autocommiserarsi, e noi ci siamo sempre un pó “dimenticati” della sua malattia. Non c’era nulla di artificioso in tutto ció, era la cosa piú naturale del mondo. Una persona accogliente e calorosa, un affermato giornalista, attivo su mille fronti, nel sociale e nella politica, che bisogno c’è di soffermarsi sugli altri aspetti?Personalmente sono sempre stato colpito dalla tua enorme umanitá, dallo spirito profondo e acuto, mai banale, con cui accompagnavi i nostri scambi di email, e nei, ahimé rari, incontri di persona, in cui ce la siamo raccontata. Che ricordi. Trovavi sempre il modo di abbracciare simpatia e professionalitá, dote straordinaria per un direttore. Fin dal primo incontro – mi avevi avvertito solo pochi minuti prima della tua malattia degenerativa, e giá questo in qualche modo destabilizza – mi avevano sorpreso la caparbietá, l’animo nel pormi tante domande, la voglia di viaggiare insieme a me, ma anche la lucida e paziente capacitá di anticipare risposte che io ancora cercavo chissá dove. E poi un inaspettato pragmatismo, un’incredibile meticolositá nel lavoro: appena presentati mi hai chiesto di scrivere del Guatemala, dell’America Latina, di economia e finanza, di politica, di corruzione, addirittura di narcotraffico. Io non sapevo di poter scrivere, ma tu mi hai iniettato quella fiducia iniziale, mi hai sostenuto, hai scardinato antiche serrature e hai canalizzato il mio desiderio di espressione ed esplorazione. Hai reso possibile tutto ció. E te ne sono cosí grato. Mi hai accolto in UM e hai fatto germogliare tanti splendidi momenti e riflessioni. “Perché non scrivi un pó di bitcoin e blockchain”, la tua curiositá era pressoché illimitata, altro eterno insegnamento che ci hai trasmesso. Mi sento ingenuo per aver creduto che ció potesse durare per tanto tempo ancora. Che ci si potesse vedere piú avanti, approfondire, elevare la nostra amicizia, ricevere ancora tante dritte da te, in tutta calma, adesso che ero tornato stabile in Trentino. Mi sento ingenuo di aver procrastinato un’apertura verso tutto ció.Sono tanto triste, ma in realtá sono sicuro che saprai insegnarmi/insegnarci ancora tanto. Mi affascinano, come sempre, le tue parole: “nonostante le nostre fragilitá, possiamo scegliere di essere una risorsa per noi stessi e per gli altri; siamo tutti di passaggio e dobbiamo imparare ad usare l’ironia e l’autoironia, non come forma di consolazione, ma come percorso di consapevolezza, per provare a vivere seriamente, senza mai prendersi troppo sul serio.” Piú le leggo e piú mi viene voglia di leggerle agli altri. E piú mi rendo conto che mancherá il suo infaticabile contributo a questo mondo, il suo esempio. E noi staremo uniti per riempire questo vuoto.Ciao Piergiorgio. Grazie”. Marco Grisenti

“Oggi ci ha lasciato il grande amico Piergiorgio Cattani, Direttore di Unimondo. Aveva solo 44 anni. Una grave perdita per il Trentino e per tutti noi… Ti ricorderemo sempre per il tuo acume intellettivo, per la tua spiccata intelligenza e per la tua generosa bontà d’animo.Felice di collaborare con Unimondo e affranta per la perdita di una grande persona e un amico di arguta e rara intelligenza e spiccata bontà d’animo come Pier, Piergiorgio di cui non mi dimenticherò mai e noi tutti faremo tesoro della sua presenza che ci guiderà per sempre. A presto”. Laura Tussi

“Dovrei essere una “professionista” dell’uso della lingua, capaci di piegarla ai pensieri in testa e magari a dar loro forma. Eppure in queste circostanze è difficile per me scrivere qualche riga di interesse, sarà la tastiera arrugginita da un anno ormai di assenza dalla redazione di UM, o lo sgomento di aver pensato che Pier ci sarebbe stato ancora per tanto nella mia vita. Un’arroganza quella di pensare di rimandare incontri, scambi di pensieri e battute con quell’amico che era il trentino più ironico che ho mai conosciuto a un “domani” che poi è sfuggito, come oggi abbiamo visto. Grazie di quanto fatto, detto, scritto, …”. Miriam Rossi

“TESTAMENTO

 Quando se ne andrà il respiro piantate alberivoglio lasciare ossigeno:dai semi d’amore gettatinella terra buona tutt’intera un giorno la mia vita risorgerà.

Dalla raccolta “Azzurro e Polvere”,  di Piergiorgio Cattani

Ti auguro tanta luce Pier!” Francesca Bottari

“Mi aggiungo solo ora alle vostre parole, ma non ne ho tante da condividere. Un po’ per il groppo in gola che incastra la tastiera, un po’ perché avete già scritto tanto voi e mi sembra di rivedere Pier in ognuno dei vostri ricordi. Perché lui era proprio così, e anche se ciascun* di noi ha un pezzettino personale da aggiungere, alla fine ne esce sempre Pier, con quel suo sguardo sornione e perspicace sul mondo, quel suo modo di dare sempre un contributo prezioso, anche quando poteva risultare scomodo. Lui, che a molti di noi ha dato la possibilità di incamminarci su quella strada che aveva intravisto, prima che noi stessi ce ne accorgessimo. Ci mancherà eccome. E forse il nostro compito sarà proprio quello di continuare insieme a difendere questo suo progetto di costruire, piccole o grandi che fossero, comunità consapevoli, ironiche, mai sazie di curiosare e crescere nonostante tutto, e nonostante questo “tutto”, oggi, ci sembri ancora più pesante e insopportabile. Un abbraccio stretto”. Anna Molinari

Caro PGC,ho avuto anch’io la fortuna di collaborare con te scambiandoci peraltro il posto in Unimondo. Collaborare per modo di dire… perché non eravamo quasi mai d’accordo! Nello spazio del “quasi” ci sta il mondo! Come suonava il telefono rispondevo: “ogni cosa purché non sia politica”! E tu: “figurati; quando mai”! E il quando mai si trasformava in quasi sempre! Mi mancheranno anche i caffè a casa tua! Ce l’hai combinata proprio grossa, stavolta! Non so se ti perdoneremo! Non so se ti dimenticheremo!”. Fabio Pipinato

“Ci sei?” mi domandava ogni giorno, più volte al giorno. “Ci sei ancora?” mi domandava quando l’orario era buono ormai più per la cena che per il lavoro. Era a quell’ora che spesso mi diceva “Ho un’idea”. Qui io prendevo sempre un po’ paura, e lo sapeva, per questo mi rassicurava “Non ti preoccupare, tu non devi fare niente. Quasi niente”. Piergiorgio Cattani lavorava sempre, lavorava tanto, lavorava bene, lavorava più di me, perché conoscere e scrivere era la sua “terapia” e poi “Io sono fortunato – mi diceva – posso lavorare, mica devo andare a fare la spesa come te”. Per questo, a me che la spesa la dovevo fare, Pier “agitava” letteralmente la vita. Le sue idee diventavano incombenze, le sue riflessioni progetti, le sue intuizioni varianti variabili, buone per un’altra idea. Quando c’era il tempo e anche quando non c’era, il suo lavoro, dentro e fuori dalla redazione di Unimondo, diventava l’occasione per un confronto, un contraddittorio, una critica, una proposta, lo spunto per un suo editoriale, l’occasione per rivedere la bozza di un suo libro, per consigliarmene uno, per farsene consigliare un altro, “ma non romanzi però, saggi”. Spesso quando la sua vera passione, la politica e l’esperienza come presidente di Futura Trentino, gli lasciava ancora del tempo libero, la chiacchierata prendeva una piega teologica, poi filosofica, poi morale, e tra una citazione latina “vediamo se lo hai studiato bene al liceo…”, un ideogramma cinese e una frase in arabo, si concludeva con il link ad una canzone: Battiato, De André, Guccini, Gaber, De Gregori, Fossati, Brunori Sas, Einaudi, la musica classica… La sua curiosità e la sua vastissima cultura sono stati per me “pane quotidiano”. “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”, così ho fatto, in tutti questi anni e non posso che rendergli grazie. Gli rendo grazie anche per tutti i “Come stai?”, “Come va?”, “Tutto a posto?” e “Mangi?” che mi ha dedicato, non quelli di circostanza, voleva testare il mio benessere, come stava il mio morale e quello della sua redazione, non gli bastava un “bene”, voleva capirlo “in una scala da 1 a 10?”. E dopo il morale il fisico. Non c’è un solo stupidissimo acciacco patito del quale non mi abbia chiesto resoconto, cura, cartella clinica ed eventuale “Guarigione”, per me il suo libro più bello. Lui, che al mio “Come stai tu?” rispondeva “Sai che sono complicato”, mi ha insegnato, tra le altre, non solo e non tanto la tenacia e la voglia di vivere, ma a lamentarmi senza provare vergogna, a raccontare la montagna senza imbarazzo (“mandami una foto!” così, come fosse un ordine. E lo era!), perché la disabilità troppo spesso sta negli occhi di chi guarda. Nella vita poi “Niente sta scritto” e nonostante le nostre fragilità tutti possiamo scegliere di essere una risorsa per noi e per gli altri. Mentre io teorizzavo lui era già prassi. E non c’era tempo da perdere, bisognava farlo subito, farlo in fretta. “Pier, porta pazienza, non ti sto dietro”, sei un “modello di collaboratore” ma “sei lento – diceva prendendomi in giro – eppure vai a correre quasi tutte le sere”. Pier andava di fretta, sapeva come tutti noi di essere di passaggio, ma lo sapeva da prima, lo sapeva meglio. Anche per questo usava l’ironia e l’autoironia, non come forma di consolazione, ma come un percorso di consapevolezza, vivendo seriamente, ma senza mai prendersi troppo sul serio. Quattro anni fa mi scriveva “devo vivere almeno fino alla mancata rielezione di Trump”. Sabato sera era sollevato “non devo aspettare per forza un altro mandato”. Domenica se n’è andato e oggi è lunedì ed è il primo giorno di lavoro senza il “mio direttore” (anche se a volte si portava avanti già la domenica sera con un messaggio: “Scusa, so che è domenica… Ci sei?”). Mi mancherai e mi spaventa capire quanto, sul lavoro e fuori. Allora oggi mentre ti immagino volare “Su Vitebsk” e un po’ su di noi come in quel poster di Chagall che hai appeso in camera tua, prendo per un attimo il tuo posto e questa volta ti chiedo e mi chiedo: “Ci sei?”. Per fortuna in tutto quello che mi hai lasciato, che è molto più di quello che ho potuto darti, ci sei e per questo ti sono infinitamente grato! Adesso ti rimando l’ultima foto che mi hai chiesto, con quella tua solita urgenza “mi serve una foto autunnale”, e poi ci ascoltiamo una canzone. L’autore lo scegli tu, ma la canzone e gli interpreti questa volta li scelgo io, “E ti vengo a cercare. Anche solo per vederti o parlare. Perché ho bisogno della tua presenza. Per capire meglio la mia essenza…”. Inshallah PGC Piergiorgio Cattani, io non smetterò di cercarti, tu non smettere mai di farti trovare. Alessandro Graziadei

“Condivido con voi il mio dispiacere. Mi dispiace non essere riuscita a conoscere Piergiorgio di persona; mi avrebbe fatto molto piacere. Lo ringrazio dentro di me per avermi letta e per avermi dato la possibilità di dar voce ai miei pensieri. Di fatto, credo che mi abbia cambiato la vita…  arrivederci Piergiorgio”. Lucia Michelini

“Abbiamo parlato varie volte al telefono e attraverso brevi messaggi, ma l’ho incontrato solo una volta, a Trento per un piccolo convegno e anche quella volta il tempo per poter parlarci di persona (e non di lavoro) è stato breve. Per questo voglio ringraziarvi per le vostre testimonianze che – me ne rendo conto adesso – mi stanno facendo conoscere una persona con cui, pur essendo in contatto, di fatto non conoscevo. E che mancherà a tanti. Anche a me. Perchè – come ha scritto Ale – anche a me ogni tanto arrivava un suo messaggio per chiedermi “Ci sei? Come stai? Ti va di scrivere un articolo” e – lo confesso – l’ho sempre sentito come un messaggio di stimolo e apprezzamento. Ecco, forse non ho conosciuto Piergiorgio, ma una cosa posso dirla: credo che apprezzasse tutti noi, il nostro lavoro, il nostro impegno. Ma soprattutto ci apprezzava come persone. E questo penso sia il regalo più bello che ha fatto a noi e a tanti. Non ha chiesto “pietà”, ha dato dignità. Quella dignità che rivendicava per sè e per tutti, soprattutto per i più deboli e dimenticati.  Grazie Piergiorgio! Un forte abbraccio”. Giorgio Beretta

“Quella con Piergiorgio è stata un’amicizia di lavoro iniziata un decennio fa quando sono entrata in Fondazione Fontana e si è poi solidificata, anche se “virtualmente” considerate le distanze fisiche (Trento-Padova dove lavoro e Conegliano dove risiedo), da quando è diventato il Direttore di Unimondo. Me lo ricordo quel momento di passaggio. Pier ha saputo leggere ed intercettare il mio desiderio di continuare a “stare” in Africa anche se ero rientrata e le occasioni di fare ricerca sul campo sarebbero diminuite. E così è stato! Mi ha trascinato dentro riflessioni partendo sempre da domande scomode che mi aprivano gli occhi, ogni volta. Con lui non potevo permettermi di “rallentare”. Mi incalzava continuamente…dovevo rimanere aggiornata anche nei momenti più pieni. Incalzata, sollecitata, talvolta rimproverata per non riuscire a rispettare i tempi… “Piergiorgio, non ti sto dietro!”. Questo gli dicevo…  e poi giocava ad interrogarmi “Ma tu lo sapevi che…?”. E quante volte mi ha trovato impreparata!!Quattro anni fa abbiamo fatto Quarant’anni insieme. Sì, siamo della stessa classe. Io di marzo, lui di maggio 1976. Quella volta abbiamo “festeggiato” insieme, a casa sua, davanti ad una super torta. Me la ricordo ancora. In quell’occasione mi ha regalato un libro stupendo, “Resistenti. Storie di uomini e donne che hanno lottato per la giustizia” di Todorov. “Tra quei Resistenti ci sei anche tu, Piergiorgio Cattani. Uomo straordinario, studioso d’eccezione, pensatore, giornalista, direttore. Non ci credo ancora, ma domani mattina non sarà un lunedì come gli altri. Resisteremo, ce la faremo. Sarai sempre il nostro Direttore!” Questo breve messaggio l’ho scritto ieri. Questa mattina non è stato un lunedì come gli altri. Non è arrivata la domanda via Whatsapp “Ci sei?”… Ma vorrei dirti che”Ci sono e che scriverò i pezzi che non ho ancora scritto!”. Sara Bin

“… è strano vivere in un mondo senza Pier. Provo un po’ di (sano) smarrimento: abbiamo condiviso progetti, sogni, idee, momenti di confronto – perché lui così faceva – non solo con me, ma con tutti e tutte. Era un punto di riferimento come pochi nella vita; e c’è da essere grati per il tempo che abbiamo avuto a disposizione con lui.  Adesso sì, tocca a noi raccogliere il testimone e andare avanti. Domani però, o magari dopodomani: il tempo di smaltire il dolore. Forse non così in fretta come avrebbe fatto lui, ma si sa, di Pier ce n’era uno. Novella Benedetti

Grazie per tutti questi ricordi affettuosi. Anche se a volte non ne condividevo pienamente le posizioni, ammiravo molto la lucidità e l’intelligenza brillante di Pier. L’ultima volta l’ho visto tre anni fa, in occasione del suo compleanno, con una torta e tante persone a condividere un momento di festa nel giardino di casa sua, alla vigilia della mia partenza per una nuova avventura in Portogallo. Ed era curioso e sempre mi chiedeva “dove sei adesso”? Perché dov’ero, da quando l’ho conosciuto, non era mai scontato, nemmeno per me.  Ma é soprattutto attraverso i racconti del mio caro amico Ale che ho conosciuto tanti aspetti del suo carattere, come la sua insofferenza verso chi lo trattava con pietismo per la sua condizione fisica (memorabile l’episodio delle suore), la sua meravigliosa pungente ironia e l’immensa vastità delle sue conoscenze. E quindi é anche Ale che ringrazio, per avermi regalato pezzettini di Pier, che per me e per tutt* noi resteranno sempre vivi. abbracci. Michela Giovannini

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PeaceLink: liberiamoci dalla guerra ovunque

Intervista a Rossana De Simone di PeaceLink

PeaceLink: liberiamoci dalla guerra ovunque

Dal collettivo studentesco alla fabbrica. Rossana De Simone racconta la sua esperienza di giovane lavoratrice e delegata sindacale

Un convegno con Rossana De Simone

Intervista di Laura Tussi a Rossana De Simone di PeaceLink 

Dal collettivo studentesco alla fabbrica. Rossana De Simone racconta la sua esperienza di giovane lavoratrice e delegata sindacale

 

Perchè ricordi il 1980 come un anno terribile?

Per la prima volta nel 1980 varco il cancello di una fabbrica. Fino ad allora avevo partecipato  come collettivo studentesco alle lotte operaie per il contratto o contro i licenziamenti.

Ricordo il 1980 come un anno terribile.

Il movimento  giovanile che aveva riempito le piazze e le strade veniva brutalmente represso, il movimento operaio avrebbe vissuto la più cocente sconfitta alla Fiat, e anche London Calling, quel favoloso disco cardine del punk inglese, sarebbe diventato il documento di una triste sconfitta politica. I Clash cantavano “Londra chiama” nel momento del trionfo del partito conservatore di  Margaret Thatcher alludendo, in tutto l’LP, al disastro nucleare, inondazioni, abusi di droghe, scontri con la polizia, quartieri disagiati, giovani e disoccupati arrabbiati.

Nelle fabbriche si apre un forte dibattito sulla coerenza di una classe operaia produttrice di armi e al contempo propugnatrice di solidarietà verso i paesi le cui popolazioni venivano represse da queste stesse armi.

Quando sono entrata in fabbrica, esisteva ancora la Federazione lavoratori metalmeccanici (FLM) e al suo interno brillava nella sua particolarità, un gruppo di lavoro impegnato a livello nazionale in attività di ricerca sulla produzione, esportazione e diversificazione dell’industria bellica. Il suo più alto rappresentante,  Alberto Tridente, allora Segretario Nazionale F.L.M., nel 1979 presentava il libro “Corsa agli armamenti e uso alternativo delle risorse”. Nel volume si auspicava una forte presa di coscienza da parte delle forze politiche e del movimento operaio circa la natura e dimensioni del problema del disarmo a livello mondiale. Il moltiplicarsi dei conflitti locali e l’aumento delle spese militari, dovevano far sì che nelle fabbriche si aprisse un forte dibattito sulla coerenza di una classe operaia produttrice di armi da una parte, e dall’altra propugnatrice di solidarietà e collaborazione verso i paesi le cui popolazioni o minoranze etniche venivano represse da queste stesse armi. L’azienda di cui parlo è infatti l’Aermacchi, un tempo privata oggi di Leonardo (ex Finmeccanica), gruppo a partecipazione statale.

Racconta di cosa è diventata la Fabbrica di morte Aermacchi, oggi Leonardo e ex Finmeccanica

Leonardo è quell’azienda di cui si declama da una parte l’eccellenza tecnologica riconosciuta a livello internazionale e la capacità di fare sistema in una Italia in via di deindustrializzazione, dall’altra i pericoli di tagli finanziari e occupazionali e il rischio di una perdita di prestigio sul mercato e sulla politica estera.

Partecipasti con il consiglio di fabbrica ad una manifestazione a Torino in un clima pesantissimo

Come ho detto il 1980 viene ricordato come l’anno della sconfitta della classe operaia Fiat: Umberto Agnelli in una intervista aveva affermato che la soluzione ai problemi Fiat stava nella svalutazione della lira e nei licenziamenti di massa. Dopo mesi di trattative inconcludenti, scioperi, cortei, presidi dei cancelli, blocchi delle fabbriche, il 14 ottobre capi, impiegati, dirigenti, intermedi, operai crumiri, padroncini dell’indotto, dietro lo striscione “maggioranza laboriosa” e lo “Vogliamo lavorare in pace”, organizzano la manifestazione definita dei 40mila. La magistratura emette addirittura  in serata un’ordinanza alle forze dell’ordine affinché intervengano per garantire l’ingresso in azienda a quei “lavoratori che manifestino tale intenzione”.

Partecipo con il consiglio di fabbrica ad una manifestazione a Torino in un clima pesantissimo dove tutti ormai sapevano che lì a poco il sindacato avrebbe firmato (esattamente il 15 ottobre 1980) in tutta fretta un accordo inaccettabile e non voluto. In sostanza si lasciava alla FIAT tutto ciò che voleva: cassa integrazione a zero ore, cassa a rotazione e avviamento di processi di mobilità extraziendali.

Aermacchi e altre aziende del settore difesa avrebbero subito la crisi in termini così devastanti?

Aermacchi e altre aziende del settore difesa non avrebbero subito la crisi in termini così devastanti. Più tardi queste aziende avrebbero partecipato alla trasformazione del sistema industriale italiano ma usufruendo di leggi promozionali, oltre quelle ordinarie del Ministero, e ottenendo non solo finanziamenti per la ricerca e sviluppo dei programmi nazionali e internazionali, ma anche per l’ammodernamento di materiali, impianti, macchinari, ed apparecchiature ad alta tecnologia.

Siamo negli anni ’80, in piena guerra fredda…

E’ il periodo di una nuova guerra fredda  e della  decisione  di  installare  i  missili  nucleari  americani  a  medio  raggio in cinque paesi europei della Nato, Italia compresa. Decisione che riporterà il tema riarmo nucleare/disarmo al centro  del dibattito nel paese e l’aumento delle spese militari che nel 1988 raggiungerà i 43mila miliardi di lire con una crescita media del 6% l’anno. A livello sociale nascerà il fenomeno dello yuppismo, cioè di quei giovani che hanno come obiettivo fare un mucchio di soldi attraverso l’affermazione economica individuale, che adottano uno stile di vita consumista, ostentando la volontà del successo, sentendosi realizzati nell’economia capitalista.

Il sindacato entrava in una grande crisi da cui non è ancora uscito

Il decentramento produttivo, che ha cambiato la struttura di un sistema industriale che poggiava sulla grande fabbrica, promuoveva la creazione di piccole e medie imprese incentivando il lavoro autonomo. Questo nuovo stato di cose, con tanti piccoli padroncini ex operai subordinati alla fabbrica madre o individui che rifuggono il lavoro in fabbrica per mettersi in proprio, porterà il sindacato in una grande crisi da cui non è ancora uscito. Il sindacato aveva ormai assunto il ruolo di mediatore degli interessi in gioco. Di conseguenza la sua preoccupazione maggiore era diventata quella di mantenere intatta la sua forza a discapito della democrazia e della critica allo stato di cose esistenti: gli scioperi diventano simbolici, il negoziato sempre più accentrato, le rivendicazioni vengono elaborate nelle confederazioni senza una reale possibilità di controllo da parte della base.

Che ruolo aveva la critica alla produzione militare?

Nascerà in opposizione a queste  politiche il movimento degli “autoconvocati” che in seguito organizzerà i sindacati di base a cui aderiranno anche alcuni lavoratori Aermacchi. Per me  significherà la restituzione della tessera sindacale (nel frattempo il sindacato si era diviso nelle sue componenti tradizionali FIM, FIOM e UILM) per dare l’avvio di un sindacato di base prima di uscire del tutto dalla fabbrica. Per me la critica alla produzione militare doveva essere portata avanti insieme a quella di un modello di sviluppo basato sullo sfruttamento dell’uomo e della natura.

Altri manterranno la loro tessera pur continuando a promuovere iniziative rivolte alla riconversione dell’azienda in industria bellica. Tema ormai eliminato dalle piattaforme dei sindacati confederali.                        Nasce  il Comitato per la democrazia e la solidarietà che diverrà in seguito Comitato cassaintegrati per la pace. Sembrava fosse possibile, per i lavoratori, riprendere in mano la possibilità di decidere la propria condizione e con loro anche di tutti coloro insofferenti verso un clima che riteneva ormai impossibile modificare un modello predatorio delle risorse di un territorio e delle comunità che lo abitano.

La caduta del muro di Berlino nel 1989, la dissoluzione del Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica nel 1991 quali conseguenze hanno provocato?

Abbandonare la critica di un modello di sviluppo basato sulla sfruttamento, ha significato non capire che gli eventi intervenuti alla fine degli anni ottanta non avrebbero portato ad un mondo più giusto ed uguale. La caduta del muro di Berlino nel 1989, la dissoluzione del Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica nel 1991 ha prodotto la fine della guerra fredda e dunque una riduzione delle spese in armamenti.  Se in Italia tra il 1989 e il 1995 c’è stata una riduzione delle spese militari di circa il 12% che scendono a 37mila miliardi, questo non ha automaticamente portato ad una divisione egualitaria della ricchezza risparmiata, piuttosto sono aumentati conflitti locali e fenomeni di corruzione di lobbisti e categorie avvantaggiate.

Tu Rossana e altri compagni di lotta avete fatto pubblica dichiarazione di obiezione di coscienza alle spese militari.

Quello che è accaduto in Aermacchi è scritto nel libro “Nuovo ordine militare internazionale: Strategie, costi, alternative” del 1993 in cui si raccontano tutte le iniziative intraprese dal nostro gruppo sino alla espulsione dalla fabbrica: “Occorreva insomma riconfermare i contenuti di una battaglia decennale, intensificatasi nei 6 mesi precedenti l’espulsione”. Nel 1990 erano state approvate, in una assemblea generale, le motivazioni della legge 185/90 che avrebbe  regolato in maniera restrittiva l’export di armi nel mondo.  Nel marzo del 1988 Elio Pagani, storico portavoce insieme a Marco Tamborini dei temi del disarmo, denuncia in un’intervista a Famiglia Cristiana la violazione, da parte di Aermacchi, degli embarghi ONU del 1972 e del 1977 concernenti l’esportazione di armi al Sudafrica, nonché i rapporti commerciali da essa intrattenuta nei confronti sia dell’Iran che dell’Iraq nonostante l’imperversare della guerra tra i due paesi.  Nel 1986 avevano già fatto, insieme ad altri, pubblica dichiarazione di obiezione di coscienza alle spese militari. Ma era questo momento di  grande crisi dell’industria bellica, intervenuto alla fine degli  anni novanta, che si poteva supporre fosse possibile cominciare a sperimentare progetti di diversificazione/riconversione industriale.

Voi cominciavate a supporre fosse possibile sperimentare progetti di diversificazione e riconversione industriale?

Tuttavia, come già accaduto  dentro la Oto Melara, anche il tentativo dei lavoratori Aermacchi fallisce grazie alle lobby politico-sindacali-militari.  Noi ci opponevamo fermamente alla richiesta di finanziamenti statali destinati all’addestratore militare PTS2000 (diverrà 346) e ai 510 miliardi a favore del programma AMX ed EFA, contrapponendo un pacchetto di proposte alternative al massacro occupazionale finalizzato alla sola razionalizzazione della fabbrica. Nei nostri confronti però iniziò un vergognoso boicottaggio attraverso l’espropriazione della possibilità di parlare in assemblea  e con il rifiuto della consultazione dei lavoratori sulle proposte alternative.

In Italia, sia a livello politico sia sindacale, si affermava la teoria della supremazia della tecnologia bellica e della sua ricaduta nei settori civili, e si approvava il “nuovo  modello  di  difesa” che avrebbe disegnato le nuove capacità militari per realizzare interventi militari all’estero. Il risultato è stato il respingimento del programma europeo Konver  che avrebbe finanziato la riconversione bellica di aziende in profonda crisi.

Come prosegue la Vostra lotta fuori dalla fabbrica?

La nostra lotta fuori dalla fabbrica avrebbe poi permesso la creazione di una Agenzia per la riconversione dell’industria bellica nel 1994 (chiusa in seguito dalla giunta Formigoni), non senza prima essere diventati, con l’installazione di una roulotte in Piazza del Podestà a Varese il 16 gennaio 1991, la notte in cui iniziò la prima guerra del Golfo, un punto di riferimento dell’intero movimento della città e della provincia contro la guerra. Dopo di questo nelle fabbriche è sceso il buio sulla domanda: quale produzione? cosa e come vogliamo produrre per vivere in un mondo in cui tutti possono vivere senza essere sfruttati nel rispetto della natura?

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La nonviolenza efficace come strategia educativa 

Nonviolenza e educazione

La nonviolenza efficace come strategia educativa

I giovani e la piena consapevolezza delle sfide del terzo millennio dalla diseguaglianza globale, ai dissesti climatici, alla potenziale, ma quanto mai imminente e irreversibile, guerra nucleare
Laura Tussi10 ottobre 2020

La nonviolenza efficace come strategia educativa

Secondo Freud, il lavoro dell’educatore, come quello dello psicanalista e del politico, è un mestiere impossibile.

Non risulta il bisogno di condividere in pieno questo giudizio per rendersi conto di quanto sia impegnativa l’azione educativa, formativa e analitica.

Le difficoltà sono di diverso tipo: di relazione interpersonale, di comunicazione, di linguaggio, di metodologia e spesso si assiste al prevalere del trasmettere sul comunicare come direbbe Danilo Dolci, maestro di educazione maieutica.

Paradossalmente, la letteratura su questo tema cresce notevolmente con continue nuove proposte che sovraccaricano educatori, insegnanti, analisti e formatori rendendo il loro compito ancora più difficile, schiacciati tra diverse esigenze concrete e impellenti, dai programmi da svolgere, dalle carenze strutturali, organizzative, economiche del mondo scolastico, dalla disattenzione della società che invia messaggi diseducativi o quantomeno in forte contrasto con quelli che l’educatore, il formatore, lo psicologo cercano di trasmettere nel fare esperienze dirette.

E così sottoporsi al forte impatto dell’incontro con realtà culturali molto diverse dalle nostre è un modo intelligente per cercare di suscitare nei giovani quegli interessi e quelle curiosità che, pur innati in molti di loro, spesso vengono sopiti dal consumismo dilagante di mode effimere.

Si tratta di quella irrequietezza giovanile che, se incanalata positivamente, può aprire ai ragazzi strade nuove e impreviste, favorendo lo sviluppo delle loro capacità e creando un clima di fiducia e di impegno.

Si tratta inoltre di accogliere la sfida lanciata dai venti premi Nobel per la pace, con un appello delle Nazioni Unite, che sia dedicato all’educazione alla nonviolenza dei bambini e delle bambine nel mondo.

La nonviolenza che fa fatica a entrare nel nostro vocabolario educativo e soprattutto nelle nostre pratiche metodologiche. Ma è oggi assolutamente indispensabile educare le nuove generazioni alla nonviolenza attiva e efficace se vogliamo che l’umanità abbia un futuro sostenibile e desiderabile.

Questo intenso investimento non può limitarsi a proporre i modelli classici della competitività e della carriera, ma deve prospettare la creazione di condizioni perché il mondo della scuola diventi un vero e proprio laboratorio della nonviolenza, dove fare germogliare e crescere questa esile pianta.

In questa ambiziosa impresa siamo tutti coinvolti: insegnanti, educatori, genitori, psicologi, analisti, associazioni del mondo della solidarietà, della cooperazione e della nonviolenza, amministrazioni, amministratori politici e questo impegno ci può indicare una possibile e concreta strada da percorrere. Si sa bene quante e quali difficoltà si incontrano nel cercare di fornire ai propri studenti strumenti utili per una migliore comprensione dei principali fenomeni quali la globalizzazione, il neocolonialismo, il neoliberismo, il divario nord-sud, gli squilibri ambientali caratterizzanti il mondo attuale e comprenderlo nel suo tormentato divenire storico.

È divenuto quantomai importante, oltre che efficace strumento di prevenzione contro il diffuso atteggiamento di pregiudizio razziale, trasmettere il messaggio di quanto ricca può essere la diversità, intesa come differenza culturale, naturalistica cioè biodiversità e paesaggistica e altro.

Credo che i giovani abbiano bisogno di capire che nel mondo esistono diversi modelli di vita e indagare questo mare di differenze certamente è stimolante e arricchente per la nostra stessa esistenza di persone.

Ci attendono sfide assai difficili e una sempre più diffusa cultura della nonviolenza e della cooperazione e della solidarietà umanistica e umanitaria non soltanto sono elementi necessari, ma rappresentano la nostra speranza per una convivenza accettabile tra donne, uomini, popoli e per un inserimento sostenibile della nostra specie come parte integrante della natura.

Le giovani generazioni sono poco ideologizzate e hanno scarsa coscienza politica e hanno bisogno, nel loro realismo spesso disilluso di avere di fronte esempi concreti, persone credibili, testimonianze sul campo.

Inoltre, i giovani parlano un loro linguaggio, legato alla loro particolare sensibilità e non è sempre facile per noi adulti calarsi in questo originale codice comunicativo. Dunque è necessario trasmettere un codice fondato sulla nonviolenza efficace come innovativa strategia educativa che porti i giovani alla piena consapevolezza delle sfide del terzo millennio dalla diseguaglianza globale, ai dissesti climatici, alla potenziale, ma quanto mai imminente e irreversibile, guerra nucleare.

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    ONU
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Il Monte della Pace

Ottobre Festa di S. Francesco: la “Fiaccola della Pace” ha nominato il “Monte della Pace”

Il Monte della Pace

 Il Primo Albero della Pace sulla cima più alta dei Monti del Matese: il Monte Miletto, “Monte della Pace”

Il Monte della Pace

Una grande impresa mai avvenuta prima d’ora nel Matese di cui tutti i partecipanti sono stati i “veri protagonisti” di un cammino di Pace in salita.

Campitello Matese. Domenica 4 Ottobre 2020, giorno in cui è ricorsa la festa di San Francesco d’Assisi, icona della Pace e difensore del Creato, e giornata dedicata alla Pace e alla Custodia del Creato, il “Movimento Internazionale per la Pace e la Salvaguardia del Creato III Millennio”, ha organizzato eccezionalmente, in tempi di emergenza Covid 19, la storica tappa della “Fiaccola della Pace” dedicata ai percorsi della memoria storica dei 100 anni della grande guerra, portata per la prima volta su Monte Miletto, la cima più alta dei Monti del Matese (2050 mt), quello che un tempo i Sanniti  definivano il “Monte Sacro (e già mons militum) e che in questa data ha ricevuto la nomina di “Monte Miletto – Monte della Pace”, e a seguire la messa a dimora del 1° Albero della Pace, dedicato a “tutti i caduti e alle vittime delle guerre, stragi, attentati, terrorismo, crimnalità, violenze e mafie, di Monte Miletto, del Matese e del mondo, dai 100 anni ad oggi”, ovvero  il segno tangibile, simbolo dell’impegno e della vita sempreverde che mai muore, che la Fiaccola porta in tutti i Comuni dove ha fatto tappa nel corso degli anni. Tutte le tappe infatti sono riportate sul “Segnavia della Fiaccola della Pace” sito accanto all’Albero della Pace in Alife (Ce). Lo storico evento è stato patrocinato del Parco Regionale del Matese di cui presidente é Vincenzo Girfatti, dalla Comunità Montana del Matese, ci dui presidente è Francesco Imperadore, dai Comuni di Roccamandolfi e di San Massimo retti dai Sindaci Giacomo Lombardi e  Alfonso Leggieri, dalla Consulta delle Associazioni del Matese di cui Presidente è Vincenzo D’Andrea, dall’Associazione Nazionale “Combattenti e Reduci” (sez. di Piedimonte Matese) di cui Presidente è Raffaele Civitillo, con l’adesione dei gruppi escursionistici G.E.M.( Gruppo Escursionisti del Matese); Matese Trekking e C.A.I.(Club Alpino Italiano sezione Piedimonte Matese), presenti con le loro Guide: Sergio Mellucci, Umberto Riselli e Gianni D’Amato, che hanno coordinato e monitorato l’intero svolgimento del percorso, partito dal punto base in zona Campitello Matese, per poi giungere fino alla vetta.
Allo storico evento hanno preso parte amici sensibili, amanti della Pace e della montagna, dei quali alcuni erano alla loro prima esperienza sul Miletto, ma che grazie al supporto delle Guide che hanno assistito il percorso, è stato possibile raggiungere la cima.

All’atleta biker escursionista di Alife Antonio Alfano, protagonista dell’iniziativa annuale denominata “Pace sul Miletto” sin dalla 1a ed.ne, promossa sempre dal Movimento per la Pace, il compito di portare la piantina di agrifoglio messa a dimora nell’area di sosta ( nelle vicinanze dell’area dove termina l’impianto sciovia e dove nasce la Sorgente denominata “Capo d’acqua” ( d’inverno pista Azzurza) proprio accanto al primo albero di faggio che si incontra durante il percorso di ritorno dal Miletto) e di issare sulla vetta del Monte la Bandiera della Pace dove sono state riportate le ultime intenzioni ( tra cui quella per la Bielorussia e i bambini di Chernobil), con la data dell’evento. Durante il posizionamento della Bandiera e la messa a dimora della piantina, hanno aiutato anche le Guide. Accanto alla Bandiera e al piccolo Albero intitolato alla Pace, sono state collocate due targhe di dedica in ricordo dello storico evento, riportanti tutta la motivazione ed il significato di questa encomiabile iniziativa. Una giornata bellissima all’insegna del sole ( nonostante le condizioni sfavorevoli del tempo nei giorni precedenti), ma anche del vento che sulla vetta tirava forte.  Tutti i presenti appartenenti ai tre gruppi escursionistici, hanno posto la loro firma sull’atto dell’Appello consegnato ai due Sindaci di Roccamandolfi e di San Massimo, in segno di impegno, sottoscrivendo così una nuova pagina della “Storia della Pace” nelle bellissime terre del “Matese – Terre di Pace”. Questi i nomi: Concetta Moscatiello, Giovanna De Biasi (Associaz. Gruppo “Piedimonte è viva”), Anna Grillo, Barbara Caprarelli, Aldo Gobbo, Valentina Fragola, Raffaella Forte, Maria Antonietta De Pasquale, Luigi Crispino, Giuseppina Del Nunzio. Andrea Pioltini , Agnese Ginocchio, Antonio Alfano, Sergio Mellucci, Umberto Riselli, Gianni D’Amato e Carlo Pastore ( quest’ultimo per motivi di salute ha seguito e monitorato lo svolgimento dell’evento a distanza).

“La nomina del Miletto in “Monte diella Pace”- ha riferito la Presidente del Movimento per la Pace Agnese Ginocchio,- è stata motivata in relazione a tutte le edizioni annuali dell’iniziativa denominata:”Pace sul Miletto” partita dall’anno 2011, (di cui oltre ad Antonio Alfano, sono stati protagonisti dell’impresa gli escursionisti Carlo Pastore, Sergio Mellucci, Aldo Gobbo, Concetta Moscatiello, Dott Biagio Carangelo con la figlia Giulia, Dante Tazza, Rosanna Giarrusso, Geppino Civitillo, Andrea Pioltini, Pasquale Biondi, Giovanni Cornelio e a cui si unirono anche altri che si trovavano in loco..)  che si tiene a cavallo tra la festa di San Sisto 1° p. e. m., patrono di Alife, e la Solennità dell”Assunta e ricorrenza di ferragostro.  La scelta di portare la Fiaccola della Pace il 4 Ottobre non è caduta a caso, era necessario un atto di coraggio in questo grave momento che ci investe ed in tempi di emergenza Covid 19, per lanciare dalla vetta del mondo un messaggio di Pace e di fratellanza Universale e per chiedere alla Pace e a San Francesco, Icona della Pace, di liberare le nostre terre del Matese, la Campania, il Molise, l’Italia ed il mondo intero, dalla nuova peste che sta affliggendo questo tempo. Abbiamo ricordato anche il Vescovo di Caserta D’Alise, scomparso proprio all’alba di questo giorno a causa del Coronavirus”. Ha concluso.

“La Pace deve ergersi dal Tetto del mondo. A noi tutti – Testimoni e Costruttori del cammino di Pace in salita, sta nel custodirla ogni giorno con le azioni e con la forza della Nonviolenza”. Con questa frase, riportata sulle targhe di dedica in memoria, e recitata da tutti i presenti, è terminato lo storico evento.
L’ iniziativa ( rientrante nelle attività di sport all’aperto) è stata organizzata rispettando le regole dell’ ultima ordinanza di sicurezza emanata dal Governo in tema di Covid.

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L'amore per l'altro

Si potrebbe affermare che attualmente nella società globale e nei rapporti umani e affettivi, il senso dell’alterità, ossia la percezione della vicinanza emotiva e personale, persiste ma al contempo si affievolisce per le molteplici lontananze di cui tutti siamo oggetto con i social e i mezzi di comunicazione. L’attitudine a tollerare, favorire e comprendere la diversità sparisce con l’intolleranza che struttura e incrimina alterità e differenze: i nazionalismi, i regionalismi, i fondamentalismi, i sovranismi, le imprese di purificazione etnica sono processi che generano intolleranza e sfociano in razzismo e in altre ideologie criminali.

Alcuni gruppi umani non cessano di creare alterità, di costruire e inventare l’altro e perciò di annientarsi perchè, al contrario della differenziazione culturale, questa incessante moltiplicazione sociale e invenzione di un nemico comune è portatrice di morte.

Il senso della diversità ci mette di fronte all’evidenza del senso elaborato dagli altri, individui o collettività.

Il senso di cui si tratta e che viene auspicato e promosso è il senso sociale, cioè l’insieme dei rapporti simbolizzati, istituiti e vissuti tra le persone all’interno di una collettività che questo insieme permette di considerare pluralista e solidale: una solidarietà globale e universale.

Non esiste una società che non abbia definito, in modo più o meno rigoroso una serie di rapporti normali tra generazioni, fratelli, donne e uomini, lignaggi, classi, età, uomini liberi e schiavi, indigeni e stranieri.

Il compito del ricercatore è evidente, in quanto non rimanda in modo specifico a un solo e esclusivo tipo di società e di caratteristica umana, nella cittadinanza che si definisce attiva e globale. Ed è per questa ragione che nell’articolo in questione si situa l’incontro all’incrocio tra i miei riferimenti pedagogici e i miei interessi culturali più generali.

Vorrei interrogarmi, ponendo le premesse per una pedagogia generalizzata sul concetto stesso di alterità, nella sua relatività che è molteplice, in quanto gli altri definiscono e portano a compimento l’altro, la differenza e le diversità implicite nei soggetti, in ogni singola persona, in ogni specifico essere umano.

A proposito di alterità e di senso degli altri, per professione o per scelta volontaria, quanti sono impegnati in un’attività sia sanitaria, sia assistenziale troveranno un sussidio valido e di facile accesso nelle letture sulle scienze sociali e pedagogiche. Con un linguaggio chiaro e conciso, esse accompagnano il lettore lungo il cammino complesso che dall’accoglienza conduce al dialogo costruttivo, indicando gli scopi contro cui spesso naufragano tutti e tanti incontri individuali e di gruppo, ossia indicano i mezzi per evitarli. All’idea espressa in questo articolo contrasta la leggerezza con cui spesso è considerata la dimensione relazionale del mondo dell’assistenza sociale e sanitaria, nella ricerca pedagogica e psicologica.

Professionisti e volontari sono facilmente portati a sottovalutare la necessità di una preparazione all’incontro interpersonale, i primi facendo affidamento sulla propria competenza tecnica, i secondi fidandosi eccessivamente della buona volontà. Le conseguenze di un simile stato di cose non mancano di tradursi in situazioni di disagio che rendono meno umano il servizio all’approccio pedagogico e psicologico utilizzato, che attinge a fonti di sicura fede umanistica e umanitaria, invitando a un approfondimento e alla formazione del dialogo e alla relazione di aiuto.

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Un angelo in cammino per il mondo

Intervista a una amica “nomade”

Un angelo in cammino per il mondo

Il viaggio come esperienza di vita, di impegno, di attivismo. “Sono convinta che il modo migliore per valorizzare questa mia vita sia esplorare il mondo, che sia il paese vicino o l’altro capo del pianeta”.

Intervista a Cristina Bonzagni

Intervista di Laura Tussi a Cristina Bonzagni

Perchè ti definisci nomade?

Sono Cristina Bonzagni, di anni 45, segni particolari emiliana nomade.

Da tanto tempo ormai vivo dove capita, fra un lavoretto precario e l’altro. Il mio obiettivo principale è sempre stato viaggiare. Sono convinta che il modo migliore per valorizzare questa mia vita sia esplorare il mondo, che sia il paese vicino o l’altro capo del pianeta.

Così ho scelto di ribaltare tutto, di non dare troppa importanza al lavoro, di non metterlo al primo posto. Tratto il lavoro (o meglio i lavori) per quello che sono: strumenti per raggiungere i miei obiettivi. Di conseguenza i lunghi studi fatti vengono puntualmente accantonati per fare spazio a qualunque (o quasi) opportunità lavorativa mi capiti lungo la via.

In cosa consiste la felicità per Cristina?

Se qualcuno mi chiedesse che cos’è la felicità, la descriverei come un enorme zaino pronto a partire insieme a me senza destinazione. La felicità è partire. Senza organizzare troppo, solo il minimo indispensabile. Partire ed esplorare la diversità. Diversità di paesaggi, di linguaggi, di tradizioni, di culture. La diversità mi affascina da sempre quanto il decollo di un aereo.

Perchè ti piace viaggiare?

Negli ultimi 20 anni ho trascorso il mio tempo girovagando per l’Italia e per il mondo per motivi di studio prima e di lavoro e piacere poi. Se penso a me vedo una giovane donna con il trolley sempre aperto, con un biglietto sempre pronto, costantemente in partenza e con la mente ed il cuore in attesa di cambiamenti. Mi vedo straniera in tanti luoghi, quasi sempre in viaggio da sola con il mio zaino.

Viaggiare da sola è stata la conquista più importante della mia vita finora. Scoprire di stare benissimo in mia compagnia, di non soffrire di solitudine e di saper affrontare i tanti imprevisti dei viaggi cosiddetti “on the road”, mi ha inevitabilmente aumentato la scarsa autostima, rendendomi più consapevole delle mie potenzialità.

Raccontaci il tuo impegno nel mondo dell’attivismo e del volontariato

Si sa che ogni viaggio autentico arricchisce, aiutando ad apprezzare il valore aggiunto ed inestimabile della Diversità. E a tal proposito posso senz’altro affermare che esista una sorta di “filo rosso” che lega questa passione al mio impegno nel mondo dell’attivismo e del volontariato.

Viaggiando, nasce ed evolve in me un profondo desiderio di partecipazione attiva. Dall’esplorazione e quindi dalla conoscenza, matura la voglia di contribuire in qualche modo a rendere questo mondo un posto migliore.

Ecco allora il mio impegno ambientalista e la professione di educatore ambientale esercitata per tanti anni nelle scuole di ogni ordine e grado e nel contempo l’attivismo sociale per diverse associazioni locali e nazionali.

Cosa intendi per fragilità?

Il mio mondo ruota attorno al volontariato ormai da tanti anni e questo accade per un motivo molto semplice: aiutare gli altri, chi ha bisogno, i più fragili, gli ultimi, mi fa stare bene. Mi rende felice così come viaggiare. Non posso farne a meno.

Descrivi il tuo incontro con Mimmo Lucano

Dopo anni trascorsi fra partenze e attivismo con varie realtà locali arriva però il vero ciclone che mi travolge: l’incontro nel 2018 con Domenico Lucano, ex sindaco di Riace. Una persona di rara autenticità che sa realmente emozionare e coinvolgere chi si pone attentamente in suo ascolto.

Quali sentimenti ti ha suscitato l’incontro con Mimmo Lucano?

E grazie a Mimmo in me scatta una molla che amplifica il desiderio, già presente, di mettermi in gioco, di fare la mia parte.  La sua umanità è contagiosa e i mesi successivi a quel primo incontro mi vedono nella mia Bologna a portare aiuti ai senzatetto trascinandomi appresso per le vie del centro un paio di trolley pieni di vestiti e coperte da distribuire.

Perchè proprio Moria?

Non riesco più a fermarmi e poco tempo dopo raccolgo indumenti e altri aiuti da portare nel campo profughi di Moria sull’isola greca di Lesbo. Rimango là circa una settimana nel dicembre 2018 e posso dire che rimarrà senza dubbio una delle esperienze più intense della mia vita.

Perchè proprio Riace?

Ma un pezzetto del mio cuore è rimasto nel profondo Sud Italia. E so che devo tornare laggiù.

Allora divento una pendolare che, fra un impegno e l’altro, appena possibile ritorna a Riace. E ogni volta nuove attività, nuove scoperte, nuovi amici. Il legame con il luogo diventa così sempre più saldo.

Ormai sono passati due anni da quel primo incontro con Mimmo Lucano e con la sua Riace.

Due anni davvero ricchi di emozioni e di difficoltà. E adesso vi scrivo dalla mia casa provvisoria di questo piccolo borgo della Locride calabrese. Sto cercando di stabilirmi qui perchè la consapevolezza di aver trovato finalmente il mio posto nel mondo dopo una vita di nomadismo si è rafforzata e si rafforza giorno dopo giorno.

Riace è il luogo del cuore in grado di regalarmi un sorriso ogni mattina nel momento stesso del risveglio ed è qui che sta iniziando con gioia una nuova fase di questa mia vita.

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Noi abbiamo un sogno

Per una nuova educazione

Noi abbiamo un sogno

Vogliamo recuperare l’immaginazione e la creatività di cui abbiamo tanto bisogno a scuola.
Occorre tornare a essere importanti per il futuro di coloro che erediteranno madre terra.
Laura Tussi

La scuola. Questa nostra scuola gerarchizzata che ancora mantiene ruoli inammissibili, autoritari, che derivano dalla realtà di una società afflitta da innumerevoli degenerazioni psichiche.

Questa scuola nella quale l’unica cosa che dobbiamo fare è insegnare a addizionare e sottrarre.

La scuola e i suoi metodi di insegnamento. La Chiesa e i suoi metodi di controllo.

Di sicuro c’è che la scuola è in crisi. Naturalmente è un’opinione personale, sebbene condivisa da molti. E questa crisi è molto più profonda e difficile da gestire di quelle economica, poiché quel che accade alla scuola è un riflesso fedele di quanto sta avvenendo nel nostro mondo. Un mondo diseguale. Ingiusto.

Un mondo nel quale l’individualismo, il materialismo si antepongono a un valore necessario indispensabile: l’umanità. La scuola rimane estranea a tutti questi problemi. È ancorata a una metodologia arcaica e superata nella quale primeggia maggiormente una aberrante burocrazia rispetto a un compito delicato e sempre più sottovalutato: quello di educare. Una scuola disorganizzata che non si degna di rispondere ai bisogni provenienti da un mondo in mutazione plurale, che deve far fronte a problematiche ogni giorno più complesse. Una scuola raffazzonata che compie continue riforme educative senza andare alla radice del problema perché per questo non vi è mai tempo. Una scuola normale?

Nel cosiddetto “villaggio globale” scopriamo che la nostra scuola si guarda allo specchio della società violenta e competitiva. E anche qui i conflitti si risolvono con l’aggressività. E la violenza è implicita in ogni parola che pronunciamo perché è sempre stato così: un modo ereditato dai potenti. È in definitiva una scuola sottomessa all’onnipotente libro di testo, pressante, eccessivo. Il bisogno di offrire ai nostri studenti uno sguardo diverso sul mondo differente da quello che ci mostrano i mezzi di comunicazione: stereotipato e parziale. Cerchiamo il modo tramite cui gli studenti così giovani con i loro anni sono capaci di comprendere quello che risulta incomprensibile: l’ingiustizia sociale, la fame, la distribuzione disuguale della ricchezza, l’impatto dell’uomo e le conseguenze per il pianeta. Attraverso la realtà cerchiamo di collegarli con situazioni differenti per farli sentire speciali.

Vogliamo che siano loro i protagonisti del cambiamento per una volta, attori indispensabili per terminare l’opera. Oltre l’aula è possibile comprendere gli altri, trasmettere umanità. Vogliamo aprire agli studenti le porte del mondo e avvicinare tutta la sua bellezza. Vogliamo recuperare l’immaginazione e la creatività di cui abbiamo tanto bisogno a scuola.

Tornare a essere. Essere importanti per loro, per i nostri figli indifesi di fronte a una società che li considera pregiudizialmente degli idioti, incapaci di discernere tra il giusto e l’ingiusto. Che li soppesa sulla bilancia perché valgono solo per ciò che consumano. I figli e i nostri nipoti che erediteranno madre terra.Ereditare la Terra, costruire una nuova educazione

Questo ci proponiamo. Non possiamo affermare che lo abbiamo realizzato pienamente. Non ci siamo nemmeno sempre sentiti compresi. Non siamo stati capaci di condividere con gli altri il compito. Noi docenti non condividiamo sempre la stessa visione del mondo, ma siamo condannati a imparare a lavorare insieme e è il nostro esame pendente perché tutti facciamo parte della soluzione del problema, famiglia e scuola. Le strutture del sistema scolastico sono troppo radicate e resistono al cambiamento.

Tentando di costruire, finiamo di distruggere perché riproduciamo nelle nostre classi gli stessi schemi che troviamo nella società per finire col soffrire dei suoi stessi mali.

Servirebbero anni per riconoscere tutto ciò che non funziona in questa nostra scuola, quella che indottrina. La scuola del controllo sociale. Un fine così opposto a quello di riuscire a far cambiare ai nostri studenti lo sguardo che hanno sul mondo. Ed è inevitabile concentrarsi più sul cammino che sulla meta. Certamente qualcosa abbiamo ottenuto.

Siamo riusciti a far loro comprendere che esistono realtà distinte e persone diverse. Che siamo differenti. Le nostre diversità. Un qualcosa che non succede tutti i giorni nelle nostre classi: alla fine prima di tutto una persona andrà a far parte dell’universo emozionale dello studente trascinandosi così tanto i suoi difetti quanto le sue generalità.

Ci resta molto cammino da percorrere. E cosa ci importa se non disponiamo di tutte le risorse, di tutte le certezze: siamo nel posto giusto. Una scuola nuova e necessaria e imprescindibile. Tornare a sognare con un percorso differente. Un futuro alternativo.

Un altro mondo è possibile. Noi abbiamo un sogno. Di questo si tratta.

 

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    24 agosto 2020 – Laura Tussi
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Amore & Resistenza

Recensione al Libro di David Maria Turoldo. Il Resistente

Amore & Resistenza

Piccola recensione ritmica di Renato Franchi  & Gianfranco D’Adda, Musicisti, per il Libro “David Maria Turoldo. Il Resistente” di Guerino Dalola, con prefazione di Laura Tussi e Fabrizio Cracolici

David Maria Turoldo. Il Resistente, Libro di Guerino Dalola con Prefazione di Laura Tussi e Fabrizio Cracolici. Recensione di Renato Franchi e Gianfranco D'Adda

Storie incredibili, straordinarie, di giustizia, speranza, libertà , amore, paura e coraggio, si incontrano nel leggere le pagine memorabili della resistenza partigiana: ragazzi, donne e uomini di ogni ceto sociale, che indignati e sopraffatti si ribellarono, salendo sulle montagne, lasciando case e affetti, per combattere la crudeltà del fascismo mussoliniano, ignorante e vigliacco, e l’invasore germanico con il suo terrificante e folle nazismo hitleriano, orrendo e feroce !

 

Una stagione di lotta armata per dare la libertà al nostro paese e alle generazioni future !!! Una libertà da cui nacque la nostra Costituzione e la democrazia!

 

In queste vicende che legano con un filo rosso questa straordinaria umanità, con la sua fede, la sua cultura profonda, l’amore per la poesia, la musica e l’incapacità di rimanere inerte di fronte al terrore, il crimine e le atrocità della guerra con le sue vittime, le macerie e il dolore, incontriamo la  figura religiosa ma emblematica e carismatica di  Padre David Maria Turoldo.

 

Un Prete “Resistente”, come cita il titolo del bellissimo e avvincente libro edito da Mimesis, curato da Guerino Dalola, dall’Anpi Franciacorta con la preziosa prefazione di Laura Tussi e Fabrizio Cracolici e il contributo di importanti testimonianze di persone e amici che lo hanno conosciuto, stimato e apprezzato per il suo impegno sociale anche dopo la stagione della Resistenza!

 

In queste belle pagine, ci troviamo nei passaggi di tempo e di vita di questo sacerdote che scopriamo un po’ ribelle e controcorrente.

 

Siamo di fronte a un sognatore, un poeta, scrittore e autore  di opere saggistiche e letterarie, che senza sparare un colpo di fucile s’impegnò con tutta l’anima e il cuore nella stagione straordinaria della Resistenza.

 

“Resistenza”, parola sacra per Padre Turoldo, come sacro fu il suo cammino, in cui non accettava barbarie e ingiustizie, non definendosi mai Partigiano ma semplicemente “un resistente”.

 

Comportamento coerente intriso di pensiero culturale e sociale molto profondo, che nella lacrima di Dio lo contraddistinse per tutta la sua vita, con non pochi ostacoli da superare.

 

Alcuni momenti difficili, come la sua posizione controcorrente sul voto contro l’abrogazione della legge sul divorzio ne sono una testimonianza concreta e emblematica!

 

Straordinario il suo pensiero evangelico… così riassunto è ricordato nel libro …“ i principi religiosi non possono essere imposti a chi non crede: la religione va proposta e spiegata. Non imposta con una legge”.

 

E così il suo tentativo, nella stagione del terrorismo e degli anni di piombo, di avviare una trattativa con le brigate rosse per la liberazione di Aldo Moro, presidente della democrazia cristiana, azione che gli fu impedita e bloccata dalle gerarchie superiori.

 

Tra i tanti citiamo questi episodi significativi, che delineano la coerenza e la saggezza sociale, politica e religiosa di David Maria Turoldo.

 

Prima di continuare ad addentrarci oltre, ci teniamo scrupolosamente a precisare il fatto che io, Renato Franchi e Gianfranco D’Adda, siamo musicisti da una vita e non è il nostro mestiere scrivere recensioni di libri, in particolare come questo, che tratta un tema importante….siamo più avvezzi e allenati ovviamente a scrivere e comporre canzoni e testi e musiche e ritmi.

 

Ma quando Laura Tussi ci chiese e ci propose di scrivere il nostro pensiero, una breve recensione sul libro e sulla figura di Turoldo, ci sentimmo onorati, ma anche preoccupati di non riuscire nel compito prezioso che ci veniva affidato.

 

Ora ringraziamo Laura e Fabrizio per averci spronato a farlo, perché come a volte succede, qualcosa fa accendere la luce nella stanza buia e illumina gli occhi che si mettono a viaggiare e vanno oltre l’apparenza oggettiva delle difficoltà, e così è avvenuto questa volta, ed eccoci qui, con le nostre riflessioni nate dopo aver letto il libro!!

 

La lampadina, la luce, il lampione si accesero quando arrivammo a pagina 19  del testo, davanti agli occhi apparve una poesia, tra le tante scritte da padre Turoldo nel 1947, dedicata alla città di Milano, ancora ferita e sconvolta dagli avvenimenti bellici.

Il titolo, a nostro giudizio, e il contenuto poetico e sincero di quelle parole scritte con il cuore ancora sanguinante e addolorato ci hanno colpito profondamente.

 

Ecco alcuni frammenti del testo:

 

“Mia Povera Patria”

 

Parole,inerti, macerie

brandelli di esistenza disamorate,

panorama del mio paese …..

 

E i poeti non hanno più canti

non un messaggio di gioia

nessuno una speranza

 

E non più alberi

sulle nostre strade disperate …

 

Le vie non hanno più linee

gli archi sono cemento

 

e dentro le case

ognuno è solo con la sua diffidenza …

 

giorni che non sono che polvere

agli orli delle macerie

 

Questa non è più una città!

 

Fummo letteralmente folgorati da quelle parole immense, piene d’amore, sgomento e dolore, ma anche di un desiderio di rinascita, di vita! Pensieri che ci riportano direttamente ai nostri giorni, al tempo che viviamo, ai problemi sociali che stiamo attraversando!

 

Così si è accesa la scintilla per me e Gianfranco che ci ha portato a trovare la strada e il coraggio di scrivere questa breve recensione.

 

Con le parole di questa  poesia ci siamo trovati catapultati lì, sulle montagne, con gli occhi gonfi di paura a vivere la nostra Resistenza con Padre Turoldo, scalzi, senza un fucile, senza una pistola, una mitragliatrice, senza un colpo da sparare, un nemico da abbattere, ma soltanto una penna, un computer e così siamo salpati nell’oceano, sul vascello e nelle scarpe di questo prete ribelle e resistente, che come si racconta nel libro, le indossò per la prima volta a tredici anni.

 

La nostra barca del pensiero approda così ai giorni nostri alla riva di una canzone che sembra scritta da Padre Turoldo; la celeberrima “Povera Patria” di una toccante e dolorosa invettiva del maestro Franco Battiato, altra figura importante del panorama culturale e musicale italiano con cui si è collaborato attraverso Gianfranco che ha suonato in tanti suoi album e in un centinaio di live.

 

Povera patria (F. Battiato)

 

Povera patria

schiacciata dagli abusi del potere

 

Di gente infame

che non sa cos’è il pudore

 

Si credono potenti

e gli va bene quello che fanno

e tutto gli appartiene

 

Tra i governanti quanti perfetti e inutili buffoni

Questo paese è devastato dal dolore

Ma non vi danno un po’ di dispiacere

Quei corpi in terra senza più calore?

 

Non cambierà, non cambierà

No, cambierà, forse cambierà

 

Ma come scusare le iene

negli stadi e quelle dei giornali?

Nel fango affonda lo stivale dei maiali

Me ne vergogno un poco e mi fa male

Vedere un uomo come un animale

 

Non cambierà, non…

 

Pur  con temporalità e condizioni sociali diverse, si avverte una micidiale analogia e similitudine tra la dolorosa descrizione di Battiato di una patria alla deriva, che necessita di un freno al cinismo, di un cambiamento e di una svolta per evitare di precipitare nel baratro della distruzione sociale!

 

Anche qui però con la speranza sempre accesa che la primavera anche se tarda ad arrivare, prima o poi arriverà.

 

Come nella poesia di Turoldo, che fotografa una realtà di distruzione che richiede un bisogno e una forte volontà di ricostruire dalle macerie… anche, come la primavera di Battiato, prima o poi doveva arrivare!!

 

Questo per noi è un collegamento diretto del pensiero di chi non accetta e lotta contro le ingiustizie, ben descritto nel libro.

 

Canzoni, poesia , arte, cultura, valori profondi che accomunano  il pensiero dei pacifisti e degli antifascisti!!

 

Nelle belle pagine di questa pubblicazione in memoria di Padre Turoldo, nelle storie e nei racconti resistenti, troviamo i valori del cammino di questo sacerdote, così come altre figure di vari ceti sociali, dell’umanesimo contadino, del mondo ecclesiastico, che lo hanno visto protagonista sui sentieri  della straordinaria stagione della Resistenza partigiana … e non solo …assunti con coerenza, senza se e senza ma.

 

Il libro descrive con preziosi dettagli molte situazioni in cui Padre Turoldo si impegnò a costruire con tenacia, caparbietà e determinazione i suoi ideali di giustizia, il più delle volte combattendo contro l’ottusità e la prepotenza delle gerarchie e del potere!

 

Potremmo dire che in quelle scarpe indossate per la prima volta a 13 anni e in quella poesia sono racchiusi i valori dell’antifascismo, del pacifismo, che lo videro forte e determinato negli anni della guerra del golfo in Iraq, della nonviolenza, dei ragazzi di Nomadelfia di Don Zeno Santini, nel rispetto e nella lotta contro le ingiustizie e le diseguaglianze, per il mondo del lavoro, degli umili e degli sfruttati, delle fasce più fragili e deboli della società, e per l’immenso dolore per i morti durante la guerra e nei campi di concentramento nazifascisti, la sua passione per l’arte, la conoscenza, la musica e la cultura.

 

David Maria Turoldo, il Resistente, un libro da tenere con amore sul cuore… e anche se Padre David non amava definirsi Partigiano, ma solo Resistente, io e Gianfranco gli diciamo: tranquillo padre .. non temere … questo comunque è un libro Partigiano. Tu sei un Partigiano, perché racconti le tue scelte, il tuo coraggio, il tuo amore per la gente, perché come dice De Gregori nella sua bella canzone… sempre e per sempre da questa parte ci ritroveremo … la parte che, come hai fatto tu, si batte contro le ingiustizie per rendere migliore il mondo e la vita!!

 

Ciao Resistente

 

Renato Franchi – Musicista/Cantautore

Gianfranco D’Adda – Musicista/Batterista

 

Grazie a Laura Tussi e Fabrizio Cracolici

 

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Per un’educazione trasformatrice

Riflessioni sulla scuola e l’empowerment

Per un’educazione trasformatrice

Per formare le nuove generazioni alla cittadinanza attiva e globale e planetaria è necessaria la formazione di educatori che siano animati non da una cultura della trincea e dell’arroccamento, ma da una cultura degli avamposti e dunque del rischio, del cambiamento e della trasformazione.

Per una scuola trasformatrice

In questo articolo mi metterò a comunicare alcuni pensieri sulla trasformazione, sul contesto mediatico, sul clima di paura e di insicurezza che produce il fatalismo e il fanatismo che impediscono il cambiamento, sempre nell’ambito del diritto costituzionale e internazionale.Il concetto di trasformazione è l’intuizione più originale che è contenuta nel curriculum Oxfam, poiché nel rapporto all’UNESCO della commissione internazionale per l’educazione del XXI secolo, presieduta da Jacques Delors, quel concetto non esisteva: si parlava di imparare a conoscere e a far vivere, a fare, a essere, ma non si faceva riferimento alla necessità di imparare a trasformare come pilastro fondamentale della nuova educazione.

Ora però diventa importante per l’educatore avere la consapevolezza che la vera trasformazione inizia sempre da se stessi e che soltanto chi è già nel nuovo nella sua mente sarà capace di innovare.

Quanti di noi per esempio sono già usciti dal Novecento e si impegnano ad abitare nel XXI secolo con il proprio pensiero e con le idee? quanti cioè hanno già compiuto questo trasloco culturale che somiglia tanto a una vera migrazione cognitiva? e quanti invece sono ancora prigionieri delle vecchie e stantie ideologie del passato (fascismo e nazismo) e delle falsità della contemporaneità?

L’educatore crede in una trasformazione.

È colui che provvede a un aggiornamento continuo, dotandosi di anticorpi cognitivi e che possiede forza e parole generatrici.

Ogni considerazione che possiamo ancora fare in merito alla necessità di trasformare la realtà deve oggi tener conto del nuovo contesto mediatico.

Voglio dire che i media e i mainstream convenzionali non sono soltanto mezzi di informazione che collegano il mondo con nuove forme di potere, influenzando i cittadini che vivono nel contesto globale e planetario. Tanti segnali ci portano a ritenere che nei nostri paesi si sta passando da una democrazia rappresentativa a una democrazia ed opinione in cui nessuno rappresenta più nessuno e si diffonde la crisi sia dei partiti politici e dei sindacati, sia delle associazioni e dei movimenti. In questa situazione di disgregazione sociale e di sfarinamento, i singoli individui sono in balia dei media e del potere.

Per catturare il consenso dei cittadini, i politici si servono di sondaggi d’opinione trasformando in questo modo la democrazia in mediocrazia. E questo che si intende dire oggi quando si parla di populismo mediatico e di regime mediocratico. Evidente che in tale contesto l’educazione diventa un’impresa difficile, quasi impossibile. Ha ragione Postman quando osserva che la scuola ha senso soltanto se riesce a svolgere un’azione di contropotere, decostruendo e ricostruendo le idee, fornendo ai giovani la possibilità di scegliere tra un pensiero allineato e conformista e un pensiero libero e divergente. Esempi di divergenza sulla de-globalizzazione (Walden Bello) rispetto alla globalizzazione. La decrescita (Serge Latouche) rispetto allo sviluppo. La cultura del dono (gruppo del Mauss) rispetto alla competitività del mercato. Non è facile dunque dare concretezza all’obiettivo della trasformazione perché oltre il condizionamento dei media vi è quello provocato dal clima di paura e di insicurezza che danneggia e genera sfiducia nel cambiamento e ingenera spirito di rassegnazione. Oggi gli educatori devono capire che la paura non è solo una categoria psicologica, ma una vera categoria politica.

Questo significa che la scuola dovrebbe interessarsi di più del codice delle emozioni e dell’educazione dei sentimenti perché come scrive il biologo cileno Maturana ciò che spinge le donne e gli uomini a agire non è la ragione, ma le emozioni. Non basta allora soltanto una mente razionale e cognitiva, ma occorre fare ricorso alla molla sentimentale ed emotiva delle passioni.

Ecco perché diventa importante trasformare nei giovani la capacità di empowerment e di resilienza rafforzando i nessi di immaginario della speranza, facendo conoscere esperienze di protagonisti positivi e l’autosviluppo dei più poveri e delle donne.

Avviandomi a concludere, se vogliamo dare vita a un’educazione trasformatrice dobbiamo innanzitutto partire da noi stessi e realizzare quella riforma di pensiero che secondo Edgar Morin ci consente di entrare con la testa nel XXI secolo, liberandoci dalle vetero – ideologie del ‘900 e avviando una nuova ecologia della mente. Essere cittadini liberi e capaci di futuro nella nostra società mediatizzata significa concepire la scuola e l’educazione come luogo di contropotere e baluardo di libertà per riaccendere il motore del cambiamento e aprire una nuova strategia di speranza che ci consente di uscire dal tempo delle passioni tristi.

È importante dedicare più attenzione alla sfera delle emozioni, dei sentimenti e delle relazioni. Gli educatori devono tornare ad essere dei soggetti sociali e culturalmente eversivi perché l’educazione rafforza sempre nei cittadini il senso della possibilità in contrasto con ogni determinismo. Un educatore in quanto insegnante non può mai accettare di essere considerato un impiegato o un funzionario. Per formare le nuove generazioni alla cittadinanza attiva e globale e planetaria è necessaria la formazione di educatori che siano animati non da una cultura della trincea e dell’arroccamento, ma da una cultura degli avamposti e dunque del rischio, del cambiamento e della trasformazione, nella nostra società complessa, sempre nell’ambito del diritto costituzionale e internazionale.

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